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Papillon

1973

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Tratto dall’omonimo romanzo di Henri Charrière e sceneggiato nientemeno che da Dalton Trumbo, figura titanica e martire della blacklist di Hollywood, Papillon rappresentò per Franklin J. Schaffner una prova a dir poco impegnativa. L'impronta di Trumbo, reduce da un decennio di ostracismo che aveva forgiato in lui una resistenza intellettuale e un acuto senso dell'ingiustizia, è palpabile: la sua penna, già autrice di opere che sfidavano l'autorità e celebravano l'indomita individualità come Spartacus o Johnny Got His Gun, conferì alla narrazione una profondità e un'urgenza che trascendevano il mero racconto di evasione. La sua stessa vita, una prigionia metaforica imposta dalla fobia politica, lo rendeva l'architetto ideale per un inno alla libertà così viscerale.

In primo luogo, perché la location delle riprese era pressoché selvaggia – fu girato effettivamente in Guyana, nel cuore pulsante e inospitale di una natura che diviene essa stessa prigione, un elemento tanto maestoso quanto minaccioso. La scelta di girare in loco, anziché ricostruire in studio, non fu una mera velleità estetica: impresse nel tessuto stesso della pellicola la fatica, il sudore, l'alienazione di quei luoghi infernali. Le condizioni estreme, il caldo asfissiante, gli insetti, le malattie, diventarono parte integrante della performance degli attori e della disperazione dei personaggi, contribuendo a un realismo crudo e implacabile che va ben oltre la scenografia. Questo sforzo titanico si riflette in ogni inquadratura, donando al film una gravitas quasi documentaristica. In secondo luogo, perché la sceneggiatura era imponente e si doveva gestire un film che arrivava a sfiorare le tre ore – poi fu ridotto per esigenze distributive, un taglio che, se da un lato ne velocizzò il ritmo per il grande pubblico, dall'altro forse sacrificò alcune delle sfumature psicologiche e dei passaggi temporali che avrebbero potuto conferire maggiore coesione a una narrazione intrinsecamente episodica, fatta di tentativi, fallimenti e lunghe attese. E in terzo luogo, perché la caratterizzazione psicologica dei personaggi non era affatto semplice, essendo una storia che comprende uomini di varia estrazione sociale e provenienza, ciascuno con la propria reazione all'inferno della detenzione.

La critica, è noto, non perdonò a Schaffner di aver realizzato un’opera "squinternata" (Morandini e Kezich lo stroncano con due stelle su cinque). Una lettura forse troppo rigida per un film che, nella sua apparente disarticolazione, riflette proprio la frammentazione esistenziale imposta dalla prigionia, e la natura episodica del percorso dell'evaso narrato dal romanzo. Schaffner, un regista abituato ai grandi affreschi epici come Patton o Il pianeta delle scimmie, qui non rinuncia alla sua vocazione grandiosa, ma la declina al servizio di una battaglia intima, trasformando la vastità della giungla e l'isolamento dell'isola in una tela per il dramma interiore dell'uomo.

Di cosa parla Papillon? È una storia di detenzione e amicizia, certamente, ma è anche un inno all'incorruttibilità dello spirito umano. In questo desolato palcoscenico di privazione, Steve McQueen e Dustin Hoffman danno prova di una bravura recitativa per alcuni versi ineguagliata, dando vita a un duetto indimenticabile. McQueen, con la sua iconica stoica risolutezza e la capacità di comunicare tormenti interiori con uno sguardo, incarna Papillon, l'uomo la cui ossessione per la libertà è un fuoco inestinguibile. La sua performance non è solo fisica, ma una battaglia contro l'annientamento psicologico. Hoffman, nel ruolo dell'intellettuale Louis Dega, il falsario timoroso e pragmatico, offre il contrappunto perfetto: la sua vulnerabilità, la sua dipendenza da Papillon, e la graduale trasformazione da codardo a leale compagno di sventura, sono un capolavoro di sottigliezza. La loro alchimia sullo schermo trascende la semplice "buddy-story", evolvendo in un legame profondo, quasi simbiotico, essenziale per la sopravvivenza in un contesto che altrimenti annienterebbe ogni velleità individuale.

Nella Guyana francese, in quelle che furono tra le più infami colonie penali della storia – il famigerato bagne – vengono rinchiusi in una colonia penale di massima sicurezza i soggetti ritenuti più pericolosi dal governo francese. Un sistema brutale, di cui l'Isola del Diavolo era il simbolo più sinistro, progettato non solo per imprigionare ma per spezzare l'anima, per annullare l'individuo. La pellicola non esita a mostrarne la desolazione, la violenza arbitraria, la disumanizzazione sistematica, rendendo la ricerca della libertà un atto non solo di sfida, ma di riaffermazione della propria umanità.

Ma Henri Charrière, detto Papillon, l'uomo tatuato con la farfalla, non è facilmente imprigionabile. E questo film è la storia del suo infinito anelito di libertà, una ricerca quasi metafisica che lo spinge oltre ogni limite fisico e mentale. La forza di un uomo, ci suggerisce il film con disarmante chiarezza, risiede nel suo sogno, nella sua capacità di mantenere viva la fiamma della speranza e del proposito, nel suo essere libero a prescindere da tutto e da tutti, anche e soprattutto dalle sbarre e dalla brutalità che lo circondano. Non è solo un'evasione fisica, ma la testarda difesa della propria identità e dignità contro un sistema che cerca di annientarle. È l'affermazione che, finché si desidera la libertà, essa esiste, almeno nel cuore.

Un’opera per certi versi scollata, è vero, a tratti disomogenea nella sua tessitura narrativa, ma con una forza narrativa unica che cattura lo spettatore e non lo abbandona, con una grande prova recitativa dei due protagonisti che elevano il materiale a vette d'eccellenza, e con una delicata focalizzazione psicologica di ogni personaggio coinvolto nella storia, anche i minori, che contribuisce a un quadro di desolante ma toccante umanità. Laddove altri film carcerari, come il pur notevole Le ali della libertà di decenni dopo, si concentrano sull'intelligenza strategica dell'evasione, Papillon pone l'accento sulla forza primordiale e quasi irrazionale della volontà. Non è tanto il "come" si fugge, ma il "perché" si continua a cercare la fuga, contro ogni evidenza e ogni ragione. È un'epopea esistenziale che interroga la natura stessa della libertà e della prigionia, e in questo risiede la sua intatta e commovente grandezza. Ci basta questo per amarlo, per perdonargli ogni presunta imperfezione, e per includerlo meritatamente in questa lista di capolavori senza tempo.

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