Partita a quattro
1933
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Regista
Un treno sferraglia verso Parigi. In uno scompartimento, due americani spiantati e geniali, un drammaturgo e un pittore, incontrano la loro musa, la loro critica e il loro destino sotto le spoglie di una deliziosa e caustica illustratrice pubblicitaria. Questo incipit, quasi da fiaba bohémienne, potrebbe appartenere a un romanzo della Lost Generation o a un dramma esistenzialista, ma siamo nel 1933 e alla regia c’è Ernst Lubitsch. Ciò significa che la potenziale tragedia esistenziale viene disinnescata, sublimata e trasformata in una delle più effervescenti, audaci e intellettualmente spregiudicate commedie della storia del cinema: Partita a quattro (Design for Living).
Il film è una creatura anomala, un reperto quasi archeologico di un’era geologica di Hollywood tanto breve quanto irripetibile: l’era Pre-Code. Quel fulgido e lascivo interregno tra l’avvento del sonoro e l’applicazione ferrea del Codice Hays nel 1934, in cui il cinema americano osava parlare di sesso, crimine e immoralità con una franchezza che sarebbe stata bandita per decenni. E Partita a quattro non è solo un prodotto di quest’era; ne è il manifesto programmatico, il canto del cigno. Basato su una pièce scandalosa di Noël Coward – talmente audace che fu inizialmente bandita nel Regno Unito – il film si presentava come una sfida quasi impossibile. La commedia di Coward, con i suoi dialoghi espliciti e la sua celebrazione di un ménage à trois, era dinamite pura per i censori. La soluzione di Lubitsch, coadiuvato dal genio della sceneggiatura Ben Hecht, non fu quella di edulcorare, ma di trasfigurare.
Qui risiede il primo, fondamentale, livello di lettura meta-testuale. Il film stesso è un “design for living”, un progetto di vita e di arte che naviga le costrizioni della morale comune. Hecht eliminò gran parte del dialogo originale di Coward, un atto che potrebbe sembrare un sacrilegio, ma che si rivela un colpo di genio. Al posto della parola esplicita, Lubitsch e Hecht inseriscono il non-detto, l’ellissi, il gesto. Il celebre “Lubitsch Touch” qui raggiunge il suo acme: non è solo uno stile, ma una strategia semiotica. Una porta chiusa, un oggetto che passa di mano, uno sguardo scambiato sopra la testa di un terzo incomodo diventano più eloquenti e carichi di erotismo di qualsiasi dialogo. Il film non ci mostra mai il sesso, ma è intriso di sessualità in ogni inquadratura. La famosa “Gentlemen’s Agreement” tra i due amici artisti, Tom (Fredric March) e George (Gary Cooper), per gestire il loro amore condiviso per Gilda (Miriam Hopkins) – “No sex. A disciplined, mutual effort” – è una regola fatta per essere infranta, proprio come il nascente codice di produzione che il film stesso aggira con suprema eleganza. La sua violazione non è mostrata, ma suggerita dalla dissolvenza incrociata su una porta chiusa, un’ellissi che è al contempo un capolavoro di censura e un trionfo di malizia registica.
La dinamica del trio protagonista trascende la semplice commedia romantica per diventare un’esplorazione quasi filosofica sulla natura dell’amore, dell’amicizia e della creazione artistica. Tom, George e Gilda non sono semplici amanti; sono una trinità artistica, un’unità creativa in cui ogni elemento è indispensabile. Gilda non è solo l’oggetto del desiderio, ma il catalizzatore, la critica spietata e l’agente che definisce le regole del loro universo. La sua battuta “It's true we have a gentlemen's agreement... but I'm no gentleman” è una dichiarazione di indipendenza che squarcia il velo del patriarcato cinematografico dell'epoca. Miriam Hopkins le conferisce un’intelligenza vibrante e una modernità sconcertante, rendendola una delle figure femminili più complesse e proattive del cinema classico americano. È lei l'architetto del loro mondo, colei che rifiuta la scelta binaria imposta dalla società.
Questo triangolo intellettuale ed erotico non può non evocare, per anacronistico contrasto, quello ben più tragico e lirico di Jules e Jim di Truffaut. Ma dove la Nouvelle Vague francese immergerà i suoi eroi in un’elegia romantica destinata all'autodistruzione, Lubitsch e Hecht scelgono la via della commedia sofisticata, quasi una fuga musicale. Se il film di Truffaut è un adagio malinconico, Partita a quattro è un allegro con brio, una fuga a tre voci in cui i temi dell’amore e dell’amicizia si rincorrono, si sovrappongono e si risolvono in un’armonia tanto precaria quanto deliziosa. La Parigi del film non è quella esistenzialista del dopoguerra, ma un palcoscenico idealizzato, una soffitta da Bohème dove la povertà è pittoresca e il genio è sempre sul punto di essere riconosciuto.
L'asse portante del conflitto non è tanto tra i tre protagonisti, quanto tra il loro mondo bohémien e il mondo borghese incarnato dal personaggio di Max Plunkett, interpretato da un sublime Edward Everett Horton. Plunkett è l'antitesi vivente dei nostri eroi: un pubblicitario di successo, prevedibile, benestante e terrorizzato da ogni forma di disordine emotivo o artistico. È l’uomo che, metaforicamente, porta il cappello anche sotto la doccia. Il suo corteggiamento di Gilda rappresenta il canto della sirena della normalità, della stabilità economica e della rispettabilità. Quando Gilda, esasperata dal caos creativo dei suoi due amanti, cede e lo sposa, il film mette in scena la dialettica fondamentale che percorre gran parte dell'arte del XX secolo: l'inconciliabilità tra l'integrità artistica e il successo commerciale, tra la libertà individuale e le convenzioni sociali. Ma, in puro stile Lubitsch, anche questa parentesi borghese è destinata a implodere sotto i colpi di un'anarchia sentimentale troppo vitale per essere repressa.
La scelta del casting è un altro elemento di pura genialità. Fredric March, con la sua energia teatrale, è perfetto nel ruolo del drammaturgo verboso e passionale. Ma la vera sorpresa è Gary Cooper. L'attore che sarebbe diventato l'archetipo dell'eroe americano taciturno e integerrimo viene qui impiegato contro-intuitivamente come un pittore timido, quasi impacciato, il cui fascino risiede proprio in una sorta di innocenza artistica. Lubitsch gioca con l'icona di Cooper, decostruendola prima ancora che si solidifichi completamente.
La sequenza finale è un pezzo di bravura che riassume l'intera filosofia del film. Tom e George, ora autori di successo, si presentano alla prima della loro commedia per "salvare" Gilda dal suo matrimonio con Plunkett. La loro irruzione nel palco, le risate fragorose che disturbano la platea borghese e la fuga finale dei tre, ridendo a crepapelle scendendo le scale mentre Plunkett li insegue urlando "Immoral!", è più di una semplice gag. È un atto di ribellione estetica e morale. La risata è la loro arma contro l'ipocrisia, la loro affermazione di superiorità intellettuale e spirituale. Non stanno fuggendo da qualcosa, ma verso il loro unico modo di esistere possibile: insieme. L'ultima inquadratura, con i tre seduti sul sedile posteriore di un taxi, che si scambiano sguardi complici mentre Plunkett viene lasciato a piedi, non offre soluzioni. Non ci dice come funzionerà il loro strano accordo, ma celebra la gioia e la libertà di averlo scelto.
Partita a quattro è dunque molto più di una commedia. È una capsula del tempo che ci restituisce il sapore di un'utopia hollywoodiana, un'utopia di intelligenza, libertà sessuale e arguzia stilistica. È la dimostrazione che il cinema può affrontare temi complessi e potenzialmente sovversivi non con la pesantezza del dramma, ma con la leggerezza della piuma. È un saggio sull'arte di vivere che ci ricorda come, a volte, le uniche regole che valga la pena seguire sono quelle che ci si inventa da soli, preferibilmente in buona compagnia e con una risata. Un capolavoro la cui modernità, a quasi un secolo di distanza, continua a essere un delizioso, irriverente schiaffo in faccia a ogni forma di conformismo.
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