Il Lamento sul Sentiero
1955
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Regista
Un vero e proprio luogo della bellezza imperniato su un’aspra critica sociale, un lungo grido di dolore che sale sommessamente dal film e ne diviene potente mezzo di comunicazione con l’Occidente, rivelando una sensibilità e una profondità inattese.
Si potrebbe condensare così il primo, folgorante film di Satyajit Ray, capostipite della celeberrima trilogia di Apu, un’opera che, con la sua disarmante autenticità e la sua lirica asciutta, spalancò gli occhi occidentali non solo sulle immense potenzialità cinematografiche di una nazione appena affrancata dal giogo coloniale, ma anche sulla ricchezza di una cultura millenaria capace di esprimersi attraverso un linguaggio universale. L’India, destinata in breve a divenire la prima produttrice mondiale dell’industria cinematografica, trovò in Ray il suo cantore più sublime e rigoroso, un regista capace di distillare l'essenza della condizione umana senza mai indulgere nel didascalismo o nell'esotismo di maniera. Il suo debutto, peraltro, fu un'impresa quasi epica, finanziata a singhiozzo dal governo del Bengala Occidentale, un'odissea produttiva che rifletteva in scala ridotta la stessa resilienza del popolo indiano.
La vicenda è, nella sua semplicità, paradigmatica: quella di una famiglia contadina della Bengal rurale che affronta una tremenda povertà e le impietose insidie della sorte attraverso il filtro dello sguardo del più piccolo dei suoi membri, il giovane Apu. La sua prospettiva, intatta e curiosa, funge da prisma attraverso cui percepiamo il microcosmo della vita rurale, le gioie effimere e le tragedie cicliche, il tutto senza che la miseria venga mai esibita come mero spettacolo, ma piuttosto come una componente intrinseca della quotidianità. È in questa sottile dialettica tra l'innocenza infantile e la durezza implacabile della realtà che si annida la più acuta critica sociale del film, che non punta il dito ma mostra, con una delicatezza quasi antropologica, la resilienza e la fragilità di esistenze ai margini.
La lotta contro eventi ineluttabili e la malasorte ricorda vividamente i Malavoglia di Verga, richiamando alla mente quel verismo che, pur nelle sue declinazioni culturali differenti, condivide con la sensibilità di Ray una profonda aderenza alla vita, la denuncia della ferrea legge del destino e della staticità di una condizione sociale predeterminata. Ma dove Verga si avvaleva della narrazione epica del crollo di un universo patriarcale, Ray scolpisce un affresco impressionistico, fatto di dettagli e silenzi, che rievoca anche le atmosfere del Neorealismo italiano, con cui "Il Lamento sul Sentiero" condivide non solo l'uso di attori non professionisti e la predilezione per le riprese in esterni, ma anche una profonda empatia verso i diseredati e una fede nell'umanità, pur nel dramma.
Quando la famiglia, stremata e colpita da lutti, deciderà di trasferirsi a Benares per cercare miglior sorte, lo struggente addio alla natura, ai luoghi d’infanzia e ai ricordi diviene occasione di un incantevole lirismo che non eccede mai in patetismo. Ray eleva qui il gesto del congedo a una forma d'arte pura, dove la telecamera indugia su dettagli significativi – una rana che salta in uno stagno, un treno che fende il paesaggio, il fruscio del vento tra le canne – trasformando il distacco in un'esperienza quasi trascendentale. Il treno, in particolare, non è solo un mezzo di trasporto, ma un potente simbolo di progresso e di fuga, di una speranza incerta che si allontana dalla staticità di un mondo rurale condannato alla sofferenza. Questa sequenza è la quintessenza del cinema di Ray: evocativa senza essere didascalica, profonda senza essere pretenziosa.
A consolidare tale visione contribuisce in modo determinante la meravigliosa fotografia di Subrata Mitra, che con il suo bianco e nero filtrato con gusto e originalità crea un'atmosfera senza tempo. Mitra non si limita a illuminare le scene; egli scolpisce la luce e l'ombra, trasformando la povertà in una tela di contrasti ricchi di significato. Le sue inquadrature, spesso fisse e ampie, catturano la vastità del paesaggio e la piccolezza dell'uomo al suo interno, conferendo dignità anche ai volti segnati dalla fatica. L'uso di tecniche innovative per l'epoca, come l'illuminazione con luce naturale per ricreare la cruda realtà, contribuì a definire un’estetica che sarebbe diventata un faro per generazioni di cineasti, influenzando il cinema d'autore ben oltre i confini indiani.
E infine, una menzione speciale merita la colonna sonora finemente concepita e composta dal leggendario Ravi Shankar, al suo primo lavoro cinematografico. Utilizzando strumenti nativi come il sitar, il bansuri e le tabla, Shankar tesse un arazzo sonoro che non si limita ad accompagnare, ma definisce ed esalta la triste narrazione, ponendola in una cornice di uno stato d’animo malinconico e contemplativo. Le sue melodie, intrise di raag tradizionali, si fondono con le immagini in una sinestesia perfetta, comunicando gioia, perdita, speranza e rassegnazione senza bisogno di parole. È una musica che respira con i personaggi, un battito cardiaco che pulsa in sincronia con le emozioni più recondite, trasformando il film in una sinfonia visiva e sonora.
"Il Lamento sul Sentiero" è, in definitiva, un’opera commovente, potente, destabilizzante nella sua verità e, ancora oggi, di un’attualità sconvolgente. Fu un grido di riscatto per una cinematografia emergente e un inno alla dignità umana, un capolavoro che ha ridefinito i canoni del cinema mondiale, dimostrando che la grandezza artistica può emergere anche dalla più estrema semplicità e dalla più profonda empatia.
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