Per qualche dollaro in più
1965
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Regista
Se Per un pugno di dollari è stato il Big Bang, la singolarità primordiale che ha squarciato il velo del western hollywoodiano con la sua cinica energia, Per qualche dollaro in più è la successiva, inevitabile fase di espansione dell'universo. È il momento in cui le leggi fisiche di questo nuovo cosmo vengono definite, scolpite nella polvere e nel sangue con una precisione stilistica che trasforma il prototipo in archetipo. Sergio Leone, qui, non si limita a replicare una formula vincente; la eleva, la complica, la dota di un'anima barocca e di una profondità psicologica che il suo predecessore, volutamente scarno come un haiku, poteva solo suggerire. Il film è una sinfonia in tre movimenti, orchestrata attorno a tre figure che non sono semplici personaggi, ma incarnazioni di diverse filosofie della violenza e dell'esistenza.
Il primo movimento è l'introduzione dei due cacciatori di taglie, figure speculari e antitetiche che sembrano uscite da un dialogo platonico sulla natura della giustizia. Da un lato, il Monco di Clint Eastwood, evoluzione diretta dello "Straniero senza nome", ma ora più definito, quasi addomesticato dalla logica del profitto. Il suo poncho è lo stesso, ma la sua moralità è diventata esplicitamente transazionale. È il professionista, il capitalista della frontiera che conta i cadaveri come un ragioniere conta i profitti. La sua è una violenza efficiente, quasi tayloristica. Dall'altro, il Colonnello Douglas Mortimer, un Lee Van Cleef riesumato dalle retrovie del cinema di serie B e trasfigurato da Leone in un'icona di ieratica letalità. Mortimer è l'antitesi del Monco. Se il primo è spinto dal denaro, il secondo è mosso da qualcosa di più antico e sacro: la vendetta. Non è un cacciatore, è un sacerdote di un culto oscuro, un cavaliere teutonico la cui armatura è un completo nero da predicatore e la cui lancia è un arsenale di armi specializzate. La sua caccia non è lavoro, è una liturgia. La loro alleanza non è un'amicizia, ma un contratto a termine, una fusione a freddo di due elementi incompatibili, tenuti insieme solo dalla gravità di un obiettivo comune: El Indio.
E qui si apre il secondo, straordinario movimento: l'antagonista. Gian Maria Volonté, liberatosi dalla maschera quasi fumettistica di Ramón Rojo, dà vita a uno dei più memorabili e complessi villain della storia del cinema. El Indio non è semplicemente malvagio; è un'anima dannata, un angelo caduto la cui crudeltà è il sintomo di una ferita interiore mai cicatrizzata. La sua dipendenza dalla marijuana non è un vizio, ma un disperato tentativo di anestetizzare un ricordo che lo tormenta. Quel ricordo è sigillato in un carillon, un oggetto che appartiene più al mondo gotico di Edgar Allan Poe che a quello del West. Ogni volta che il carillon suona la sua melodia struggente e infantile, El Indio non si prepara a uccidere, ma a rivivere il suo peccato originale, un atto di violenza e sopruso che lo ha condannato a un'eterna ripetizione coatta. È un personaggio shakespeariano, un Macbeth del deserto la cui ambizione non è il potere, ma l'oblio. La sua follia non è casuale, ma è la conseguenza logica di un trauma, rendendolo infinitamente più terrificante e, al contempo, tragicamente umano. In lui, Leone e i suoi sceneggiatori (tra cui un giovane Fulci) esplorano la patologia della memoria, tema che diventerà centrale nel successivo C'era una volta il West.
Il terzo movimento è l'apoteosi stilistica, il momento in cui Leone affina la sua grammatica visiva trasformandola in una vera e propria poetica. L'attesa diventa più importante dell'azione. I silenzi, punteggiati solo dal frinire delle cicale o dal cigolio di un'insegna, si caricano di una tensione quasi insostenibile. I primi piani non sono più semplici inquadrature, ma mappe topografiche di anime corrose dal sole e dal dubbio. Gli occhi dei personaggi diventano il vero paesaggio del film, teatri in cui si svolge il dramma interiore. In questo, Leone si dimostra più vicino a un pittore fiammingo, ossessionato dal dettaglio rivelatore, che a un regista tradizionale. Ogni duello è coreografato non come una sparatoria, ma come un balletto mortale o una cerimonia religiosa. La partitura di Ennio Morricone cessa di essere un commento musicale per diventare un personaggio a tutti gli effetti, un coro greco che anticipa, sottolinea e talvolta contraddice l'azione. Il fischio, lo scacciapensieri, le chitarre elettriche e, soprattutto, la melodia del carillon, creano un contrappunto sonoro che è parte integrante della narrazione. La musica non accompagna le immagini; le genera.
Sotto la superficie del racconto picaresco, Per qualche dollaro in più è una profonda meditazione sulla natura del tempo e del ricordo. Mortimer è un uomo intrappolato nel passato, la cui intera esistenza è proiettata verso la correzione di un'ingiustizia remota. El Indio è un uomo perseguitato dal passato, che cerca disperatamente di sfuggirgli attraverso la droga e la violenza. Il Monco è l'uomo del presente assoluto, senza passato né futuro, interessato solo al profitto immediato. Il loro scontro è, in fondo, uno scontro tra diverse concezioni della temporalità. Non è un caso che il culmine del film, il duello finale, sia scandito dal tempo musicale di un orologio. È un momento di pura meta-narrazione: il tempo del ricordo (la musica del carillon) deve esaurirsi per permettere al tempo della vendetta (il duello) di compiersi, il tutto arbitrato dal tempo del presente (il Monco).
Inserito nel suo contesto, il film è un prodotto emblematico di un'Europa che, negli anni '60, guardava al mito americano con un misto di fascinazione e disincanto. Il West di Leone non è la frontiera della speranza e del "destino manifesto" di John Ford; è una terra di nessuno post-ideologica, un purgatorio popolato da fantasmi e mercenari dove ogni valore è stato svuotato e prezzato. È un western esistenzialista, più vicino a Camus e Sartre che a Zane Grey. La violenza non è eroica, ma chirurgica o patologica. L'onore non è un codice morale, ma una variabile personale, quasi un lusso. Questa decostruzione del mito americano, operata da un regista italiano in location spagnole con un cast internazionale, è forse l'aspetto più radicale e duraturo del film. È la nascita di un cinema transnazionale che usa i generi non per celebrarli, ma per interrogarli.
Per qualche dollaro in più non è semplicemente un sequel. È il trattato che formalizza le intuizioni del suo predecessore. È il film in cui la Trilogia del Dollaro trova la sua voce più equilibrata e matura, un ponte perfetto tra la furia iconoclasta del primo capitolo e l'ambizione epica e operistica del terzo. È la dimostrazione che, a volte, per creare una mitologia immortale, non basta un pugno di dollari. Ne serve qualcuno in più, speso per aggiungere profondità, complessità e un'indimenticabile, malinconica melodia di morte e memoria.
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