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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Per un pugno di dollari

1964

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L'atto di nascita di Per un pugno di dollari è un peccato originale, un'appropriazione tanto sfacciata quanto demiurgica. Sulla carta, è un furto: la trama di Yojimbo di Akira Kurosawa, traslata di peso dai feudi del Giappone seicentesco alle terre riarse di un Messico immaginario, ricostruito sotto il sole spietato dell'Almería. Eppure, proprio in questa traduzione, in questo tradimento, Sergio Leone non si limita a copiare un capolavoro, ma ne forgia uno nuovo, dando vita a un sisma culturale che ridefinirà per sempre non solo il western, ma l'intero linguaggio della violenza e del mito al cinema. Laddove Kurosawa metteva in scena un ronin, Sanjuro, legato a un residuo fantasmatico del codice Bushido, un uomo la cui stanchezza esistenziale era ancora quella di un guerriero con una storia, Leone compie un'operazione di brutale, magnifica astrazione. Il suo Straniero senza Nome non ha passato, non ha codice se non quello del profitto, non ha identità se non quella che gli viene cucita addosso dal suo poncho e dal sigaro perennemente incastonato in un angolo della bocca. È una forza della natura, un angelo della morte capitalista che arriva in un purgatorio chiamato San Miguel per fare ciò che gli riesce meglio: monetizzare il caos.

Il film è una spietata autopsia del western americano classico, eseguita con la perizia di un chirurgo europeo e la passione di un iconoclasta. Se John Ford aveva usato la Monument Valley come cattedrale per celebrare la fondazione mitopoietica della nazione americana, Leone sceglie il deserto spagnolo, un non-luogo arido e ostile, per officiare il funerale di quel mito. I suoi personaggi non sono pionieri animati da nobili ideali, ma scarafaggi sudati, avidi e brutali, i cui volti, scolpiti in primissimi piani quasi fiamminghi, sono mappe geografiche della crudeltà e della disperazione. Le due famiglie in guerra, i Rojo e i Baxter, non rappresentano la lotta tra la civiltà e la barbarie, ma due modelli di business criminale in competizione per il controllo del mercato. San Miguel non è una comunità da salvare, ma un'arena per gladiatori dove l'unica legge è quella del più forte, o meglio, del più furbo. È il Far West visto attraverso la lente cinica di un'Europa che si è lasciata alle spalle le macerie di due guerre mondiali e sta vivendo le contraddizioni del boom economico, un mondo in cui ogni valore sembra essere diventato merce.

La genialità di Leone risiede nella sua capacità di trasformare i limiti di budget in una precisa dichiarazione estetica. La povertà della produzione diventa una stilizzazione estrema, una forma di iperrealismo grottesco. I duelli non sono più le rapide e pulite sparatorie dei film di Hawks; sono rituali operatici, coreografie del macabro dilatate all'inverosimile. Leone allunga il tempo, sospende l'azione, focalizza l'attenzione sui dettagli minimi: una mano che sfiora il calcio della pistola, un tic nervoso, il sudore che imperla una fronte, lo sguardo. Quegli sguardi. I famosi, quasi insostenibili, primissimi piani sugli occhi dei personaggi non sono un vezzo stilistico, ma il cuore pulsante del suo cinema. Sono un'invasione dello spazio intimo che trasforma il volto umano in un paesaggio interiore, rivelando l'abisso di paura, calcolo e istinto omicida che si cela dietro la maschera dell'impassibilità. È un cinema che guarda ai suoi personaggi non come eroi, ma come insetti sotto una lente d'ingrandimento, studiandone i riflessi condizionati in un ambiente ostile.

In questo universo tellurico e nichilista, Clint Eastwood non recita: esiste. La sua è una performance sottrattiva, quasi Bressoniana nella sua economia. Privato di dialoghi e retroscena psicologici, il suo Straniero diventa un'icona pura, un archetipo ieratico che si muove con la lentezza e l'inevitabilità di un evento geologico. È una tabula rasa su cui lo spettatore proietta le proprie fantasie di onnipotenza e giustizia. Le sue motivazioni sono puramente mercenarie, eppure, in un singolo, folgorante momento di apparente umanità – quando decide di salvare Marisol e la sua famiglia – il personaggio si incrina, rivelando una crepa infinitesimale nella sua corazza di cinismo. Ma è vera compassione? O è piuttosto il gesto di un demiurgo annoiato che decide di rimescolare le carte per puro capriccio, per vedere cosa succede? Leone lascia la domanda sospesa, suggerendo che persino l'atto più nobile può nascere da un calcolo o da un impulso indecifrabile. È un'ambiguità che lo allontana anni luce dalla chiarezza morale del western classico e lo avvicina a figure letterarie come il capitano Achab di Melville o il Kurtz di Conrad: uomini che operano al di là del bene e del male, incarnazioni di una volontà primordiale.

E poi, c'è la musica. La collaborazione tra Leone ed Ennio Morricone è una di quelle congiunzioni astrali che accadono poche volte nella storia dell'arte. La colonna sonora di Per un pugno di dollari non è un semplice accompagnamento, ma un controcanto narrativo, un commento ironico e straniante all'azione. L'uso della chitarra elettrica, dei fischi, delle campane, delle frustate, crea un paesaggio sonoro che è deliberatamente anacronistico e mitologico al tempo stesso. Morricone non musica il West storico, ma l'idea del West, la sua essenza brutale e leggendaria. La sua partitura è la voce fuori campo che ci dice costantemente: "Quello che state vedendo non è reale, è un'opera, una ballata sanguinaria, un mito che si sta creando davanti ai vostri occhi". Questa consapevolezza meta-testuale, questo giocare a carte scoperte con le convenzioni del genere, è forse l'eredità più profonda del film.

Per un pugno di dollari non è semplicemente il capostipite dello "Spaghetti Western", etichetta tanto fortunata quanto riduttiva. È un'opera di rottura, un gesto critico che ha utilizzato gli strumenti di un genere popolare per compiere una riflessione profondissima sulla violenza, sul capitalismo e sulla natura stessa della narrazione eroica. È il punto di non ritorno dopo il quale il western, e forse il cinema d'azione tutto, non ha più potuto guardarsi allo specchio con la stessa innocenza. Ha preso un canone americano, lo ha immerso in una sensibilità europea post-bellica, e lo ha restituito al mondo trasfigurato, più sporco, più cattivo, più disperato, e infinitamente più moderno. Come un Cervantes che, scrivendo il Don Chisciotte, seppellì per sempre il romanzo cavalleresco celebrandolo, così Leone, con un pugno di dollari e un'infinita dose di genio cinematografico, ha ucciso il western classico per garantirgli l'immortalità.

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