Perdutamente tua
1942
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Regista
Un gesto, a volte, contiene un intero universo. Due sigarette accese simultaneamente tra le labbra di un uomo, una per sé e una per la donna che ha di fronte, un passaggio di fiammella che è un cortocircuito di intimità, un patto non scritto nel cuore di una notte su una nave da crociera. Quell'uomo è Paul Henreid, quella donna è Bette Davis, e quel gesto, così semplice eppure carico di una densità erotica e simbolica quasi insostenibile, è la sineddoche perfetta di Perdutamente tua (Now, Voyager). Un film che, sotto la patina laccata del woman’s picture della Warner Bros., nasconde un trattato psicanalitico di rara modernità e una delle più complesse esplorazioni della liberazione femminile mai prodotte da Hollywood durante la sua epoca d'oro.
Il film, tratto dall'omonimo romanzo di Olive Higgins Prouty, si apre su un'immagine che pare strappata a un racconto di Henry James o delle sorelle Brontë: Charlotte Vale è una creatura prigioniera. Non di un castello gotico, ma di un'altrettanto soffocante magione di Boston e, soprattutto, della tirannia psicologica di sua madre, una matrona vedova la cui presenza è un monumento al dispotismo vittoriano. La prima apparizione di Bette Davis è un capolavoro di anti-glamour studiato: sopracciglia folte e unite, occhiali spessi, abiti informi, una postura curva che è la manifestazione fisica di un'anima accartocciata. È la "zia zitella" per antonomasia, un essere umano ridotto a funzione, la cui identità è stata sistematicamente erosa da decenni di abusi emotivi. La casa dei Vale non è solo un'ambientazione, è un paesaggio dell'anima, un labirinto di repressione dove ogni corridoio è un vicolo cieco psicologico.
L'arrivo del Dr. Jaquith, interpretato da un Claude Rains paterno e saggio (quasi un Virgilio freudiano), segna l'inizio della catarsi. Perdutamente tua è uno dei primi film americani a rappresentare la psichiatria non come una fabbrica di matti da romanzo gotico, ma come uno strumento di emancipazione, un percorso maieutico per far emergere il vero Sé. La "cura" di Charlotte non è un evento magico, ma un processo di decostruzione e ricostruzione. La sua metamorfosi non è semplicemente un makeover, l'archetipo di Cenerentola aggiornato per l'era dei grandi magazzini. È qualcosa di molto più profondo, quasi un'operazione di alchimia spirituale. Quando riappare a bordo della nave, trasformata in una donna elegante e sicura di sé, non assistiamo solo a un cambio d'abito firmato dal genio di Orry-Kelly. Assistiamo alla nascita di una persona che ha imparato a performare la propria identità, non per compiacere gli altri, ma per reclamare uno spazio nel mondo. È un'eco lontana del Pigmalione di Shaw, ma con una differenza cruciale: qui la creatura, una volta risvegliata, prende saldamente in mano il proprio destino, superando il suo stesso creatore.
È su questa nave, questo non-luogo di transizione tra un passato di prigionia e un futuro incerto, che incontra Jerry Durrance (Henreid). Il loro amore è impossibile fin dal principio: lui è infelicemente sposato, gravato da doveri che non può abbandonare. Eppure, la loro relazione è il vero catalizzatore della trasformazione di Charlotte. Non è un amore che la salva, ma un amore che la convalida. Le permette di vedersi per la prima volta attraverso gli occhi di un altro non come un'aberrazione, ma come un essere desiderabile e complesso. La regia di Irving Rapper, spesso considerato un onesto artigiano più che un autore, qui si eleva a livelli di sublime sensibilità. Ogni inquadratura della loro breve parentesi in Sud America è intrisa di un romanticismo disperato, enfatizzato dalla partitura musicale onnipresente e operistica di Max Steiner, che non si limita a commentare l'azione, ma diventa la voce stessa delle emozioni inespresse di Charlotte, un fiume sonoro che straripa dagli argini della repressione.
Il genio del film risiede nel suo rifiuto delle soluzioni facili. Tornata a Boston, Charlotte deve affrontare il suo drago: la madre. Lo scontro che ne segue è un duello psicologico di rara violenza, che culmina con la morte della matriarca. Ma la liberazione non è ancora completa. Charlotte deve ora navigare il mondo come una donna nuova, rischiando di ricadere in vecchi schemi o di essere definita dagli uomini che la circondano. È qui che il film compie il suo scarto più radicale e commovente, introducendo la figura di Tina, la figlia non amata di Jerry. Una bambina che è lo specchio della Charlotte di un tempo: goffa, infelice, respinta. Prendendosi cura di lei, Charlotte non sta semplicemente sublimando il suo amore per il padre in un surrogato di maternità. Sta compiendo l'ultimo passo del suo percorso terapeutico: diventa la guaritrice di se stessa, offrendo alla bambina l'accettazione e l'amore che a lei erano stati negati. È una forma di maternità elettiva, una scelta di cura che scardina l'idea che la realizzazione di una donna passi necessariamente attraverso il matrimonio e la procreazione biologica.
Questo ci porta al finale, una delle conclusioni più iconiche, discusse e meravigliosamente ambigue della storia del cinema. Sul balcone, avvolti dalla notte e dal fumo delle loro sigarette, Jerry chiede a Charlotte se sarà felice. Lei, guardando il cielo, pronuncia la frase immortale: "Oh, Jerry, non chiediamo la luna. Abbiamo le stelle". Questa non è una rinuncia, né un contentino. È una dichiarazione di indipendenza emotiva. Charlotte non avrà l'amore romantico convenzionale, la "luna" del "e vissero felici e contenti". Avrà qualcosa di più frammentato, forse, ma anche più vasto e duraturo: le "stelle". Un amore maturo basato sulla condivisione e non sul possesso, la gioia di vedere crescere Tina, la consapevolezza della propria forza e del proprio valore. Ha barattato una fiaba per la realtà, e ha scoperto che la realtà, sebbene imperfetta, può essere infinitamente più ricca. È una conclusione che, nel 1942, in piena Seconda Guerra Mondiale, doveva risuonare con una potenza straordinaria, parlando a un'intera generazione di donne che stavano ridefinendo i propri ruoli e le proprie aspettative.
Perdutamente tua è un film che opera su molteplici livelli. È un melodrama sontuoso, un veicolo stellare per una Bette Davis al suo apogeo, capace di trasmettere un intero mondo interiore con il solo vibrare di una palpebra o un'inflessione della voce. Ma è anche un'opera proto-femminista che usa il linguaggio del melodramma per veicolare idee sovversive. È un'illustrazione quasi didascalica di concetti freudiani sulla repressione e la catarsi, resa accessibile e avvincente per il grande pubblico. È la dimostrazione che il cinema popolare, nel suo momento di massima codificazione, poteva produrre opere di una complessità psicologica che rivaleggia con la grande letteratura. Come le eroine di Edith Wharton, Charlotte Vale impara a navigare una società che vorrebbe ingabbiarla, ma a differenza di molte di loro, trova un sentiero, per quanto stretto e impervio, verso una forma autentica di libertà. Un sentiero illuminato non dalla luna piena delle favole, ma dalla luce più fredda, distante eppure infinita, delle stelle.
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