Perfect Days
2023
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Regista
Il sommesso meccanicismo della Routine assurge, dinanzi all'occhio attento di Wim Wenders, a languida opera d'arte sorpresa nel proprio farsi. In un'epoca cinematografica dominata dal rumore, dalla fretta e dalla complessità narrativa urlata, Perfect Days si presenta come un atto di resistenza sommesso e radicale. È un antidoto, un balsamo per l'anima iper-stimolata. Questo film del regista tedesco potrebbe definirsi un placido sguardo all'interno di una vita comune per raccogliervi sensazioni benefiche che lentamente ma inesorabilmente si irradiano in tutto il nostro essere durante la visione del film. Il protagonista, Hirayama, non è un personaggio nel senso classico del termine; è un monaco laico, un anacoreta metropolitano il cui monastero è un modesto appartamento a Tokyo e la cui preghiera è la sua impeccabile routine quotidiana.
La tesi di Wenders, tanto semplice quanto profonda, è che la felicità non è un evento, ma un processo; non è una destinazione, ma una pratica. L'opera d'arte che Hirayama costruisce giorno dopo giorno non è su tela o pellicola, ma è la sua stessa esistenza. La sua routine non è una gabbia, ma un rituale. Ogni gesto è compiuto con una precisione e una presenza mentale quasi Zen: il modo in cui piega il futon, innaffia le sue piantine di acero, sceglie una musicassetta dal suo archivio impeccabile (Patti Smith, Lou Reed, The Kinks), alza lo sguardo per fotografare con la sua vecchia Olympus il komorebi, quella parola giapponese, intraducibile e meravigliosa, che descrive la luce del sole che filtra danzando tra le foglie degli alberi. Il komorebi è la metafora centrale del film: ogni giorno la luce crea giochi unici e irripetibili, anche se l'albero è sempre lo stesso. Così è la vita di Hirayama: la struttura è la medesima, ma all'interno di essa egli è capace di cogliere l'unicità irripetibile del momento, il "qui e ora" nella sua forma più pura. La sua arte non è la creazione, ma l'attenzione. Legge Faulkner e Patricia Highsmith, ascolta la musica che ama, si prende cura di un piccolo spazio pubblico. In un'eco quasi trascendentalista, il suo angolo di Tokyo diventa la Walden Pond di un moderno Thoreau, un luogo dove la vita viene deliberatamente ridotta all'essenziale per scoprire ciò che conta davvero.
La poetica dell'umiltà, lo sguardo metropolitano verso una realtà a noi spesso nascosta che cela refoli di pura elegia è la chiave di quest'opera. Wenders posa il suo sguardo su un protagonista e una professione che la società contemporanea relega ai margini dell'invisibilità: un addetto alle pulizie dei bagni pubblici. Ma qui sta il colpo di genio, che nasce da un aneddoto produttivo fondamentale: il film è stato commissionato nell'ambito del "The Tokyo Toilet Project", un'iniziativa reale che ha coinvolto architetti di fama mondiale (come Tadao Ando e Shigeru Ban) per riprogettare i bagni pubblici del quartiere di Shibuya. Wenders prende questo spunto documentaristico e lo trasfigura in poesia. I bagni nel film non sono luoghi sordidi, ma piccole architetture perfette, quasi dei templi della quotidianità, santuari di design e civiltà. E Hirayama non è un semplice pulitore; è un custode, un officiante che si prende cura di questi spazi con una dignità e un rispetto quasi sacerdotali. Il suo sguardo metropolitano non è quello abbagliato dai neon di Shinjuku, ma quello che si sofferma sui parchi, sulle piccole librerie dell'usato, sui ristorantini sotterranei. È una Tokyo a misura d'uomo, una città riletta attraverso una mappa di gesti umili e di bellezza nascosta.
L'amore di Wim Wenders per il Giappone, e in particolare per il maestro Yasujirō Ozu, è il codice cifrato che permette di decifrare l'intero film. Già nel 1985 con il suo documentario Tokyo-Ga, Wenders andava alla ricerca dello spirito di Ozu nella Tokyo moderna. Perfect Days è il culmine di quella ricerca, un omaggio così profondo da diventare un'opera originale. Lo stile è puramente ozuiano: la macchina da presa è spesso statica, posizionata ad altezza "tatami", le conversazioni sono ellittiche, i drammi (come l'arrivo della nipote Niko) sono accennati e risolti con una grazia pudica, senza catarsi urlate. Come nei film di Ozu (pensiamo a Viaggio a Tokyo), la dignità risiede nell'accettazione silenziosa del ciclo della vita, delle piccole gioie e delle inevitabili malinconie. Wenders, qui, compie un'operazione che potremmo definire un "Espressionismo Invertito" o "della Serenità". L'animo di Hirayama, sereno e in pace, non ha bisogno di distorcere il mondo. Al contrario, esprime la sua armonia interiore allineandosi con l'ordine, la pulizia e la geometria del mondo esterno. La sua pace si specchia nella trasparenza di un bagno pubblico progettato da Shigeru Ban, nella pila ordinata delle sue musicassette, nel semplice rettangolo di luce che il sole proietta sul suo muro. L'espressione della sua anima non è nel caos, ma nella quiete.
Il film si chiude sul volto di Kōji Yakusho che guida il suo furgone all'alba, ascoltando "Feeling Good" di Nina Simone. Sul suo viso si alterna un sorriso, una lacrima, un'espressione di gioia e una di profonda tristezza. In quella maschera di emozioni contrastanti c'è l'essenza di un "giorno perfetto": non un giorno senza dolore, ma un giorno in cui si è stati capaci di accogliere tutto, la bellezza e la sua ombra. "Ora è ora, la prossima volta è la prossima volta", dice Hirayama. In questa semplice frase c'è una filosofia di vita intera, e la grandezza di un film che, senza alzare la voce, ci insegna a guardare di nuovo il mondo.
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