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Persepolis

2007

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Un lugubre affresco sull’oppressione e la mortificazione delle libertà primarie, espresso in un bianco e nero che non lascia adito a voli pindarici della fantasia ma rinchiude l’immaginario nella crudeltà del Pragma esattamente come i Guardiani della Rivoluzione rinchiusero le menti di tutti coloro che caddero sotto il loro giogo. Questa scelta cromatica, apparentemente limitante, è in realtà una dichiarazione stilistica potente: evocativa non solo del medium originale, il fumetto, ma anche della brutalità concettuale di un regime che, per sua stessa natura, annulla ogni sfumatura, ogni grazia colorata della vita, riducendo l'esistenza a un dualismo manicheo tra giusto e sbagliato, permesso e proibito. È un monocromo che non impoverisce, bensì intensifica, focalizzando lo sguardo dello spettatore sulla nudità dell'emozione e sulla spietatezza della repressione, quasi a voler riflettere l'oscurità dei tempi narrati e la perdita di ogni vivacità cromatica nella Tehran post-rivoluzionaria.

Un cartone animato in bianco e nero che ricalca fedelmente la Graphic Novel dell’autrice, un’opera che alla sua uscita riscosse un immenso successo scatenando non poche polemiche. Il trionfo internazionale del film, culminato con la candidatura all'Oscar per il miglior film d'animazione e il Premio della Giuria a Cannes, fu accompagnato da reazioni contrastanti, in particolare da parte del governo iraniano, che lo bollò come propaganda occidentale e disinformazione sull'Iran. Eppure, proprio in questa fedeltà al tratto essenziale e all'impronta quasi giornalistica del fumetto risiede la forza dell'adattamento cinematografico: non una mera trasposizione, ma un'espansione del linguaggio grafico in movimento, che mantiene la forza iconica delle vignette aggiungendo la fluidità del racconto animato. Questo approccio non convenzionale al medium dell'animazione, lontano dalle produzioni mainstream, ha permesso al film di distinguersi, dimostrando che l'animazione può essere veicolo di storie complesse e profondamente personali, con una risonanza politica e sociale di primissimo piano.

Marjane Satrapi ha provato sulla sua pelle cosa significa vivere in una società ferocemente patriarcale come quella dell’Iran di questo secolo. Il suo racconto non è solo una testimonianza individuale ma un affresco generazionale, un grido di dolore e resistenza di un'intera nazione. Cresciuta in una famiglia progressista e intellettuale, intrisa di idee socialiste e laiche, Marjane è la lente attraverso cui osserviamo il drammatico passaggio dalla relativa apertura dello scià Reza Pahlavi alla teocrazia repressiva dell'Ayatollah Khomeini, un'evoluzione che ha strappato all'Iran non solo la libertà ma anche la sua identità laica e multiculturale. Il film illustra con spietata lucidità il progressivo smantellamento delle libertà personali: il velo imposto, le feste clandestine, la musica occidentale proibita, i libri proibiti. È l'incubo di una società che non tollera deviazioni, che soffoca ogni anelito di individualità sotto il peso di una dottrina dogmatica.

Una volta uscita dall’incubo dell’oppressione ha usato il suo talento visionario per trasporre la sua esperienza in un fumetto. Questo atto di creazione è, di per sé, un potente gesto politico e terapeutico, un modo per elaborare il trauma e trasformarlo in un messaggio universale. L'arte, in questo contesto, diventa non solo memoria, ma anche arma contro l'oblio e la mistificazione.

Questo film vede l’autrice alla regia assistita dall’amico Vincent Paronnaud. La loro collaborazione è stata cruciale: Satrapi ha portato l'autenticità del vissuto e la visione artistica del fumetto, Paronnaud ha contribuito con la sua esperienza cinematografica, traducendo il ritmo e la potenza narrativa della graphic novel nel linguaggio filmico. Il processo di animazione, condotto con una meticolosa attenzione al dettaglio e alla fedeltà stilistica, ha implicato un lavoro immenso, dove ogni espressione, ogni movimento è stato attentamente studiato per mantenere la forza espressiva del disegno originale. Il risultato è un’opera che bilancia la cruda realtà dei fatti con l'immediatezza e l'universalità del tratto animato, rendendo la storia accessibile a un pubblico globale.

Il risultato è un film d’animazione duro e feroce, spietato nella sua pulizia di linee e nella sua trama asettica. Eppure, proprio in questa asciuttezza, si cela una profondità commovente. La "pulizia di linee" non è freddezza, ma una scelta estetica che concentra l'attenzione sull'essenziale, eliminando il superfluo per esaltare il dramma umano. La "trama asettica", lungi dall'essere priva di emozione, è un susseguirsi di micro-narrazioni, aneddoti che, pur nella loro specificità, rivelano la condizione umana sotto la tirannia: la paura costante, la sfida quotidiana, l'ingegno per sopravvivere e la disperazione dell'esilio. È un approccio quasi brechtiano, che invita alla riflessione più che alla mera identificazione emotiva, eppure riesce a scavare in profondità nell'animo dello spettatore.

Ma anche una storia teneramente malinconica nel rievocare una gioventù sgretolata nella macina della Storia, un tempo in cui il fervore intellettuale e l’ironia della propria famiglia fece sentire la giovane Marjane come una bimba privilegiata, facendo sbocciare in lei il talento di un’Arte tenuta a lungo segreta. La malinconia non è rassegnazione, ma la consapevolezza della perdita, del tempo che non tornerà. I momenti di tenerezza e umorismo sono il cuore pulsante del film: le discussioni sulla politica e la filosofia tra le pareti domestiche, l'audacia di ascoltare musica punk clandestina, la nonna irriverente che sputa in faccia a Dio — sono queste schegge di umanità, di sfida sottile, a contrapporsi alla desolazione esterna. È attraverso il calore e la ribellione silenziosa della sua famiglia che Marjane sviluppa un senso critico acuto e la capacità di trovare la bellezza e la verità anche nel caos. Questa dicotomia tra la vita privata ricca di fervore e la pubblica mortificazione è ciò che rende la narrazione così avvincente e universalmente riconoscibile. L'arte, in questo contesto, emerge come l'unica via di fuga, un linguaggio cifrato che permette di esprimere l'inesprimibile e di conservare la propria identità in un mondo che cerca di annullarla.

Un film che rimane a lungo nell’animo, come una ferita indelebile, a perenne testimonianza di cosa è ancora capace di fare l’uomo ai propri simili, ai nostri tempi, in nome della Religione. "Persepolis" trascende la sua cornice iraniana per diventare una parabola universale sui pericoli del fanatismo religioso e politico, sull'importanza della libertà di pensiero e sull'ineludibile destino dell'esilio per coloro che non si piegano. È un monito per il presente e per il futuro, che ci ricorda come la storia, nella sua ciclicità, tenda a ripresentare le medesime forme di oppressione. L'eco di Persepolis risuona ancora oggi, in un mondo in cui intere popolazioni continuano a lottare per i diritti basilari, dimostrando che l'arte, quando è autentica e coraggiosa, può davvero essere uno specchio non solo del passato, ma anche delle sfide ineludibili del nostro tempo.

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