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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Piano... piano dolce Carlotta

1964

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Un miasma di magnolie in decomposizione e segreti incancreniti si leva dal bayou della Louisiana. È l'aria stessa che si respira in Piano... piano dolce Carlotta, un'aria densa, febbrile, che si attacca ai polmoni come il muschio spagnolo agli alberi. Robert Aldrich, reduce dal successo cannibale di Che fine ha fatto Baby Jane?, non si limita a replicare la formula del "Grande Dame Guignol", ma la distilla, la purifica nella sua essenza più torbida, trasfigurandola in un'opera di gotico sudista che avrebbe fatto impallidire William Faulkner e dato incubi a Tennessee Williams. Se Baby Jane era un vaudeville macabro confinato in una casa di bambole polverosa, Carlotta è una tragedia greca in piena regola, consumata tra le colonne fatiscenti di una piantagione che è, a tutti gli effetti, la tomba a cielo aperto del Vecchio Sud.

Il film si apre con un prologo che è un capolavoro di ellissi e brutalità. 1927. Una festa sfarzosa, un amore proibito tra la giovane e ribelle Charlotte Hollis (una Bette Davis ringiovanita con un artificio quasi spettrale) e il suo amante sposato, John Mayhew (un Bruce Dern al suo debutto, quasi irriconoscibile). Un confronto, un'accetta, un abito da ballo bianco macchiato di sangue. Taglio. Trentasette anni dopo, l'abito è ingiallito, la macchia è un fantasma di ruggine e Charlotte è un relitto umano, una reclusa barricata nella sua magione in rovina, mentre il mondo moderno – incarnato da una spietata autostrada in costruzione – minaccia di spazzarla via. La piantagione di Holliswood non è una semplice location; è il teschio di Yorick di un'intera civiltà, un mausoleo della memoria dove il passato non è mai passato. È un personaggio a sé stante, le cui crepe sui muri sono le rughe sul volto di Charlotte, le cui stanze vuote riecheggiano il vuoto della sua anima.

Aldrich orchestra una sinfonia della paranoia. La macchina da presa di Lucien Ballard, in un bianco e nero espressionista che scolpisce le ombre come crepacci nell'oscurità, non si limita a filmare l'azione: la incarna. Le inquadrature sghembe, le prospettive distorte, i primissimi piani che scrutano il terrore negli occhi di Bette Davis non sono vezzi stilistici, ma la traduzione visiva di una psiche che si sta fratturando. Quando Charlotte è perseguitata da visioni – una mano mozzata, una testa che rotola, un carillon che suona una melodia spettrale – noi siamo con lei, intrappolati nella sua stessa, soggettiva percezione dell'orrore. Il film non ci chiede di credere ai fantasmi, ma di credere alla paura dei fantasmi, che è una forza infinitamente più potente e distruttiva.

E al centro di questo uragano psicologico c'è lei, Bette Davis, in una delle sue performance più selvagge e disperate. La sua Charlotte non è semplicemente pazza; è una donna la cui sanità mentale è stata sistematicamente erosa da decenni di ostracismo e sospetto. È una performance che vive di eccessi barocchi, di gesti teatrali e urla strazianti, ma sotto la superficie della furia c'è una vulnerabilità commovente. Davis non interpreta la vittima, ma la combattente che ha perso la guerra prima ancora di cominciarla. È un Re Lear al femminile, che si aggira nel suo regno in rovina, armata solo di un fucile e di una lucidità intermittente che rende la sua discesa ancora più tragica.

La dinamica del film cambia radicalmente con l'arrivo della cugina Miriam, interpretata da una sublime Olivia de Havilland. Qui si apre un capitolo metacinematografico di una perfidia squisita. Il ruolo era stato originariamente di Joan Crawford, ma la leggendaria faida con la Davis, esplosa sul set di Baby Jane, raggiunse qui il suo apice tossico, portando Crawford ad abbandonare (o ad essere cacciata dal) set. L'ingaggio di de Havilland fu un colpo di genio. L'eterna, dolce Melania di Via col vento arriva in questa piantagione maledetta non come un'ancora di salvezza, ma come un angelo della morte vestito di tweed. La sua calma serafica, i suoi sorrisi rassicuranti, la sua pacata razionalità sono armi di manipolazione psicologica di una crudeltà inaudita. Il contrasto tra la sua studiata compostezza e l'isteria sbrigliata della Davis crea una tensione quasi insopportabile. È lo scontro tra due diverse ere di Hollywood, tra due stili di recitazione, tra due archetipi femminili: la pazza nell'attico contro la vedova nera travestita da crocerossina.

Il gaslighting, oggi un termine di uso comune, viene qui elevato a forma d'arte. Miriam, in combutta con il Dottor Drew Bayliss (un Joseph Cotten viscido e stanco, perfetto nel ruolo dell'amante decaduto), non si limita a ingannare Charlotte; le smonta la realtà pezzo per pezzo, usando il suo passato traumatico come un'arma. È una vivisezione psicologica condotta con la precisione di un chirurgo e la malvagità di un inquisitore. In questo, Carlotta trascende il genere horror per diventare un'agghiacciante parabola sulla natura della verità e sulla fragilità della mente umana, un'esplorazione che ricorda più le atmosfere opprimenti di un romanzo di Henry James, come Il giro di vite, che non un semplice thriller.

Ma il cuore pulsante e plebeo del film è Agnes Moorehead nel ruolo della governante Velma. La sua performance, giustamente candidata all'Oscar, è un concentrato di lealtà ferina e disprezzo perbenista. Con i capelli unti, i vestiti logori e un'andatura da scaricatore di porto, Velma è la Cassandra della storia, l'unica a vedere la verità dietro le maschere, una sorta di coro greco ridotto a una singola, rabbiosa voce. La sua devozione per Charlotte è viscerale, quasi animalesca, e il suo scontro con la sofisticata Miriam è uno scontro di classi, di mondi, di verità. È il pragmatismo terreno contro l'ipocrisia borghese, e la sua fine è tanto brutale quanto inevitabile.

Piano... piano dolce Carlotta è un film sull'obsolescenza. L'obsolescenza di uno stile di vita, quello del Sud aristocratico, spazzato via dal progresso. L'obsolescenza di una donna, Charlotte, messa ai margini dalla società. E, in un senso più profondo e metatestuale, l'obsolescenza di un certo tipo di divismo hollywoodiano. Bette Davis e Olivia de Havilland, regine dell'età d'oro, sono qui costrette a recitare il loro canto del cigno barocco, a trasformare la loro stessa immagine mitologica in un veicolo di orrore e pathos. Il film è una casa degli specchi dove il dramma sullo schermo si riflette nelle tensioni del set, dove la finzione si nutre della realtà, creando un cortocircuito di significato che lo rende un'opera stratificata e inesauribile.

Aldrich, da maestro del cinema di genere, non teme di affondare le mani nel grottesco, nel grandguignolesco. La sequenza finale, con il colpo di scena rivelato sotto un sole accecante, è un trionfo di crudeltà quasi operistica, una catarsi che non porta sollievo ma solo un gelido, desolante vuoto. La follia, ci dice il film, non è un'aberrazione, ma una risposta forse logica a un mondo che ha perso ogni logica. Quando, nell'ultima, indimenticabile inquadratura, Charlotte scende la scalinata verso la folla, non è una pazza guarita, ma un fantasma che ha finalmente accettato di abbandonare la sua casa infestata. La vera vittoria non è la sua ritrovata sanità mentale, ma la sua definitiva uscita di scena, lasciando che il mondo moderno, con la sua brutale autostrada, si prenda le rovine. Un'elegia sontuosa e terrificante, un capolavoro avvelenato che ancora oggi, a decenni di distanza, non ha perso un grammo della sua capacità di turbare e affascinare.

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