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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Piccolo Cesare

1931

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Prima che ci fosse un Padrino, prima che Tony Montana annegasse nella sua stessa cocaina e ambizione, prima che i bravi ragazzi di Scorsese ci insegnassero che la parte più difficile era la vita da signor nessuno, c'era un volto. Un volto compresso, quasi scimmiesco, sormontato da un Borsalino e perennemente contratto in una smorfia di disprezzo per il mondo intero. Era il volto di Cesare "Rico" Bandello, e con lui, nel 1931, il cinema americano non si limitò a partorire un genere, ma forgiò un mito tellurico, un archetipo oscuro dell'American Dream. "Piccolo Cesare" di Mervyn LeRoy non è semplicemente un film; è il Genesi apocrifo della moderna epica criminale, un Riccardo III da bassifondi la cui sete di potere non anela a un regno, ma al controllo totale di un anonimo quartiere cittadino, un trono di birra di contrabbando e piombo.

Rico, incarnato da un Edward G. Robinson che erutta energia atomica da ogni poro, è un concentrato purissimo di volontà di potenza nietzschiana, distillata e servita in un bicchierino da speakeasy. Non gli interessano i soldi per ciò che possono comprare, né le donne, che anzi vede come una debolezza snervante e incomprensibile. Il suo mantra, "Be somebody", è la chiave di volta di un'esistenza votata all'ascesa per l'ascesa. È un personaggio quasi astratto nella sua monomania, un motore immobile di violenza la cui unica funzione è salire. In questo, la struttura del film è di una classicità shakespeariana disarmante. La sua ascesa è una tragedia annunciata, ogni gradino conquistato verso la vetta della malavita di Chicago è una pietra posata sulla sua futura tomba. Il suo hamartia, il suo difetto fatale, non è la semplice avidità, ma un’implacabile e vanitosa hubris, la convinzione di essere al di sopra della paura, dell'amore, e persino della morte.

Girato nell'era di transizione tra il muto e il sonoro, "Piccolo Cesare" utilizza il suono con una brutalità espressionista. Il dialogo è secco, funzionale, un codice Morse di minacce e ordini. Ma è il rumore a definire il paesaggio: il gracchiare dei telefoni, lo stridere dei pneumatici sull'asfalto bagnato e, soprattutto, il crepitio della mitragliatrice, la vera voce del nuovo potere urbano. LeRoy, un regista di solido mestiere più che un autore visionario, intuisce che il gangster film è intrinsecamente un genere acustico. Il suono della violenza, prima solo suggerito, ora può essere sbattuto in faccia allo spettatore. La città stessa, un labirinto di vicoli fumosi e interni claustrofobici fotografati da Tony Gaudio, sembra un palcoscenico espressionista tedesco trapiantato nel Midwest americano, un non-luogo dove le ombre si allungano come presagi e ogni angolo può nascondere un agguato. Non è la Chicago reale, ma una sua idealizzazione infernale, un'arena morale dove si consuma il dramma.

Il film è un documento inestimabile dell'era Pre-Code, quel breve, glorioso interstizio di libertà creativa prima che la mannaia del Codice Hays si abbattesse su Hollywood. Rico non è un antagonista; è il protagonista assoluto. Lo spettatore è costretto a seguirne la parabola, a provare un perverso brivido per i suoi successi, a sentirne il magnetismo. In un'America devastata dalla Grande Depressione, dove il sistema capitalistico aveva tradito le sue promesse, la figura del gangster che si fa da sé, che aggira le regole di una società fallita per prendersi ciò che vuole, esercitava un fascino potentissimo e sovversivo. Rico è l'altra faccia di Horatio Alger: non il lustrascarpe che diventa milionario con l'onestà e il duro lavoro, ma il delinquente che scala la gerarchia sociale a colpi di pistola. È il sogno americano letto attraverso la lente deformante del Naturalismo di un Émile Zola o di un Frank Norris: l'individuo è un prodotto del suo ambiente spietato, e per sopravvivere deve diventare il predatore più spietato di tutti.

L'analisi più profonda del personaggio, tuttavia, non può prescindere dalla sua complessa, quasi patologica relazione con il suo amico Joe Massara (Douglas Fairbanks Jr.). Qui la pellicola trascende il gangster movie e sfocia nel dramma psicologico. Rico manifesta un'affezione per Joe che è talmente possessiva e gelosa da lambire i territori di un subconscio omoerotico, un tema che ovviamente il film non poteva esplicita ma che serpeggia sotto la superficie. La vera minaccia per l'impero di Rico non è la polizia, non sono i gangster rivali, ma è una donna, Olga, l'amore di Joe. Lei rappresenta tutto ciò che Rico disprezza e teme: la normalità, l'emotività, un legame che esula dal potere e dalla lealtà criminale. La sua incapacità di eliminare Joe, il suo unico punto debole, è la crepa che farà crollare l'intero edificio. È un dettaglio di una modernità sconcertante, che anticipa di decenni le nevrosi e le complesse dinamiche affettive dei gangster che popoleranno le opere di Coppola e Scorsese.

Edward G. Robinson, un intellettuale colto e mite nella vita reale, compie un miracolo di mimesi. La sua statura minuta, anziché sminuirlo, accentua la sua ferocia. È un Napoleone da marciapiede, un concentrato di rabbia e insicurezza che compensa la mancanza di prestanza fisica con una volontà di ferro e una crudeltà fulminea. La sua performance è un saggio su come il potere non risieda nei muscoli, ma nello sguardo. Ogni sua espressione, dal ghigno sprezzante al lampo di panico negli occhi quando si sente vulnerabile, costruisce un ritratto indelebile. Quando ammira il suo nome sui titoli dei giornali, vediamo non solo un boss del crimine, ma un artista narcisista che ammira la sua opera più grande: sé stesso. È un atto meta-narrativo: Rico non si limita a commettere crimini, ma costruisce la propria leggenda in tempo reale, diventando il primo gangster consapevole del proprio ruolo mediatico.

Il finale è storia del cinema. Rico, solo, impoverito, tradito dalla sua stessa vanità, finisce crivellato di colpi dietro un cartellone pubblicitario che reclamizza proprio lo spettacolo del suo amico Joe. La sua ultima, celeberrima battuta – "Mother of mercy, is this the end of Rico?" – non è una domanda, ma un lamento cosmico, l'epitaffio di un re detronizzato che scopre, troppo tardi, di non essere invincibile. È il grido disperato di un uomo che, dopo aver cercato di essere "qualcuno", muore nell'anonimato più totale, ridotto a una macchia di sangue nell'indifferenza della metropoli. In quella singola scena c'è l'eco della caduta di ogni grande tragico, da Edipo a Re Lear, fino al "Rosebud" di Charles Foster Kane, un altro gigante americano che muore solo, aggrappato al simbolo di un'innocenza perduta.

"Piccolo Cesare" è molto più del capostipite di un genere. È un'opera mitopoietica che ha fissato nell'immaginario collettivo le regole, i codici e l'estetica della criminalità come spettacolo. Senza la brutalità compatta di Rico Bandello, non avremmo avuto la calcolata freddezza di Michael Corleone, l'edonismo disperato di Tony Montana, o l'ansia esistenziale di Tony Soprano. Tutti, in un modo o nell'altro, sono suoi figli illegittimi. La pellicola di LeRoy rimane un monolite nero, un'opera di una purezza narrativa quasi astratta, che ci racconta la più americana delle storie: quella di un uomo che voleva il mondo e finì per possedere solo la polvere del proprio fallimento. E nel suo volto contratto in un'ultima smorfia di incredulità, continuiamo a vedere il riflesso oscuro di un sogno che, se perseguito senza anima, non può che trasformarsi in incubo.

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