Piccolo Grande Uomo
1970
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Regista
Uno dei Western più atipici e affascinanti mai girati, che si distacca con ferma eleganza dagli archetipi granitici e spesso monocromatici del genere, inaugurando un'era di revisionismo e introspezione.
Arthur Penn prende in mano un romanzo di Thomas Berger e ne ricava un’opera scevra da ogni moralismo, intessuta di ironia e lirismo spontaneo. Questa sua cifra stilistica, già evidente in capolavori come Gangster Story, dove la violenza era un balletto brutale e allo stesso tempo tragicamente umano, qui si sublima in un'epopea ondivaga che attraversa un secolo di storia americana con una leggerezza apparente che cela una profondità amara.
Jack Crabb rivive a 120 anni suonati la sua vita in un lungo flashback, un mosaico di memorie frammentate ma vivide, che lo rende un testimone privilegiato e, al contempo, un narratore inaffidabile e affascinante. Rapito dagli indiani a 10 anni fece ritorno al “mondo civile” a 20. Questo pendolarismo esistenziale tra due culture diametralmente opposte eppure indissolubilmente legate, trasforma la sua saga personale in un’autentica disamina dell’identità americana al suo crocevia più cruciale.
La sua vita è la vita delle lande di confine, quando il mondo dei bianchi e quello dei pellerossa collidevano e al contempo si compenetravano scambiandosi tradizioni e valori. Non è solo uno scontro di civiltà, ma un sincretismo forzato e spesso doloroso, dove il genocidio strisciava sotto la superficie delle interazioni quotidiane. Penn, con una sensibilità che preannunciava il revisionismo storiografico degli anni a venire, dipinge gli indiani come il popolo che più di ogni altro subì umiliazioni e ingiustizie, ma non emette giudizi trancianti, bensì offre una prospettiva empatica, spesso comica nella sua assurdità, sulla tragedia imminente.
Il suo dettato narrativo riesce sempre ad essere scorrevole e avvincente, intingendo la tragedia nel comico e la violenza nell’assurdo, un approccio che lo distingue nettamente dai Western più tradizionali di John Ford, dove l'epica era spesso al servizio di un mito fondativo acritico, o dalla cruda revisione di Sam Peckinpah, pur condividendone la disillusione sulla frontiera. Il suo è un atto d’amore verso una cultura libera e leggera come il vento che frustava le praterie, un inno all'adattabilità umana e alla saggezza ancestrale, ma anche un amarissimo commento sulla distruzione di un mondo.
Il film, uscito nel 1970, si inserisce perfettamente nel clima della New Hollywood, un periodo di fermento cinematografico in cui i miti americani venivano decostruiti con feroce lucidità. Insieme a pellicole come Soldato Blu (realizzato nello stesso anno), Piccolo Grande Uomo contribuì a smantellare l'immagine stereotipata dei nativi americani, spesso ridotti a barbari selvaggi o a nobili figure idealizzate, offrendo invece un ritratto più sfumato e complesso, seppur filtrato attraverso una lente picaresca. La battaglia del Little Bighorn, ad esempio, non è qui un trionfo di Custer, ma una farsa tragica e sanguinosa, un'anticipazione della disfatta morale che attendeva l'America in Vietnam, un parallelo non così velato per il pubblico dell'epoca che viveva in pieno il disincanto post-bellico. La figura del Generale Custer, lungi dall'essere l'eroe di facciata, diventa una caricatura pomposa e sanguinario, un simbolo dell'arroganza imperialista e della follia distruttiva. Questo ribaltamento delle prospettive non è solo una scelta stilistica, ma una vera e propria ermeneutica storica, che invita lo spettatore a riconsiderare l'intero palinsesto della narrazione occidentale.
Un grande Dustin Hoffman nel ruolo di Jack Crabb, oppone al candore del personaggio un tono di fondo ironico e quasi malizioso da creatura metropolitana, che non fa altro che aggiungere fascino e credibilità. La sua interpretazione è un virtuosismo di metamorfosi, poiché Crabb è costretto a essere mille uomini in uno: il figlio adottivo dei Cheyenne, il venditore di elisir, il giocatore d'azzardo, l'alcolista, l'eremita, fino all'incontro con i più celebri fuorilegge del West. Hoffman cattura ogni sfumatura di questa complessa maschera picaresca, rendendo tangibile il disorientamento e la resilienza di chi si muove tra mondi con codici morali e sopravvivenza antitetici. È la personificazione di un'America che non riesce a trovare la sua identità definitiva, costantemente in bilico tra la ferocia civilizzatrice e la purezza primitiva, un outsider che suo malgrado diventa il narratore privilegiato di una saga epocale. Questo atto d'amore, dunque, non è cieco o sentimentale, ma consapevole delle cicatrici e delle perdite, un requiem per un mondo perduto e un monito per un futuro che sembra incapace di imparare dagli errori del passato. La maestria di Penn sta proprio nel rendere questo dramma epocale intimo e universale, un'odissea di crescita e disillusione attraverso lo sguardo di un uomo che, pur vivendo mille vite, non si è mai veramente sentito parte di nessuna.
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