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Picnic ad Hanging Rock

1975

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Regista

Un poema visivo che si insinua sotto la pelle come un’insolazione, un mistero che non chiede di essere risolto, ma vissuto. Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir è un’opera che fluttua al di fuori del tempo e delle convenzioni narrative, un’esperienza cinematografica che agisce per sottrazione, spalancando un abisso di domande per poi rifiutarsi, con superba e crudele eleganza, di fornire anche una sola, misera risposta. Il suo potere non risiede nella trama, ma nell’atmosfera; non nella soluzione dell’enigma, ma nella sua persistenza quasi cosmica. È un sogno febbrile dal quale non ci si sveglia mai del tutto.

Il giorno di San Valentino del 1900, le allieve dell’Appleyard College, un austero avamposto di civiltà vittoriana piantato nel cuore selvaggio del bush australiano, ottengono il permesso per una gita ai piedi dell'imponente formazione rocciosa di Hanging Rock. Sotto un sole implacabile che sembra liquefare i contorni della realtà, tra il ronzio narcotico degli insetti e la lettura di poesie, qualcosa accade. O meglio, qualcosa smette di accadere. Gli orologi si fermano a mezzogiorno. Quattro ragazze, guidate dall’eterea e quasi soprannaturale Miranda (Anne-Louise Lambert), decidono di scalare la roccia. Tre di loro, insieme a un’insegnante, svaniranno nel nulla, inghiottite dal silenzio ancestrale di quel monolito che esiste da milioni di anni prima dell'uomo e che continuerà a esistere milioni di anni dopo la sua scomparsa.

Weir costruisce il suo capolavoro su una dicotomia fondamentale, quasi metafisica: da un lato la gabbia dorata della civiltà coloniale britannica, con la sua asfissia di corsetti, guanti bianchi, lezioni di etichetta e versi imparati a memoria. È un mondo di repressione, di ordine forzato, incarnato dalla glaciale e tirannica preside, Mrs. Appleyard (Rachel Roberts), la cui rigidità è fragile come porcellana pronta a incrinarsi. Dall’altro lato, la Natura. Non la natura romantica e addomesticata dei parchi inglesi, ma una forza primordiale, tellurica, indifferente e potentissima. Hanging Rock non è uno sfondo, è un’entità. Le sue rocce hanno forme falliche e antropomorfe, sembrano osservare, attendere. È un luogo pagano, un tempio di divinità antiche e dimenticate che non hanno alcun interesse per le buone maniere o la poesia europea. L'ascesa delle ragazze sulla roccia è un atto di liberazione e, al contempo, un sacrificio. Si sfilano i guanti, si tolgono le calze, si abbandonano a un torpore sensuale, rispondendo a un richiamo atavico che la loro educazione ha cercato in ogni modo di soffocare.

La fotografia di Russell Boyd, premiata con un meritatissimo BAFTA, è l'elemento chiave che trasfigura il film in un'esperienza ipnotica. Utilizzando filtri e veli sull'obiettivo, Boyd crea un'immagine morbida, diffusa, quasi impressionista. La luce del sole australiano non è limpida e chiara, ma lattiginosa, onirica, come se stessimo osservando la scena attraverso il velo di un ricordo o, appunto, di un sogno. Questo stile visivo, che deve tanto alla pittura della Heidelberg School australiana quanto all'estetica preraffaellita nel ritrarre le sue fanciulle-ninfe, serve a erodere costantemente la nostra percezione della realtà. Non sappiamo mai se ciò che vediamo sia oggettivo o sia il frutto della psiche surriscaldata e repressa delle protagoniste. La colonna sonora, che alterna le partiture evocative di Bruce Smeaton al suono ossessivo e struggente del flauto di Pan di Gheorghe Zamfir, completa l'incantesimo, trasportandoci in una dimensione dove la logica cede il passo all'inspiegabile.

Il film, dopo la scomparsa, si trasforma. Devia deliberatamente dal sentiero del thriller o del giallo convenzionale. La ricerca delle ragazze diventa un pretesto per esplorare il vero soggetto dell’opera: il collasso dell'ordine di fronte al caos del numinoso. La comunità, incapace di processare un evento privo di eziologia, si disgrega. L'ossessione del giovane aristocratico inglese Michael (Dominic Guard) che cerca le ragazze è meno un'indagine e più un pellegrinaggio mistico, un tentativo di entrare in comunione con l'enigma. La stessa Appleyard College si sfalda, vittima dell'isteria e dello scandalo, la sua facciata di rispettabilità crolla rivelando il vuoto e la disperazione che nascondeva. La tragedia della piccola Sara (Margaret Nelson), l'orfana ossessionata da Miranda, diventa il cuore oscuro e pulsante del film, un contrappunto dolorosamente umano al mistero cosmico della roccia.

È impossibile non tracciare un parallelo con L'Avventura di Michelangelo Antonioni. Anche lì, una donna scompare su un'isola vulcanica e la sua assenza, più che la sua ricerca, diventa il catalizzatore che espone il vuoto esistenziale dei personaggi rimasti. Ma se Antonioni usava il mistero per dissezionare la vacuità della borghesia moderna, Weir lo usa per esplorare lo scontro tra la razionalità occidentale e un misticismo panico e ancestrale. L’assenza in Weir non è vuoto, ma una presenza opprimente, un’energia che contamina e distrugge tutto ciò che tocca. Sofia Coppola, quasi un quarto di secolo dopo, ne coglierà l'eco spettrale per il suo Il giardino delle vergini suicide, un altro film su una femminilità enigmatica e perduta, avvolto in una fotografia sognante e nostalgica.

Basato sull'omonimo romanzo di Joan Lindsay del 1967, il film trae la sua forza definitiva da una scelta produttiva cruciale. L'autrice aveva scritto un capitolo finale, il diciottesimo, che forniva una spiegazione soprannaturale (e francamente deludente) alla scomparsa, legata a un varco temporale o a una metamorfosi. Il capitolo fu rimosso su suggerimento dell'editore prima della pubblicazione e reso noto solo postumo. Weir, in accordo con Lindsay, scelse di ignorarlo completamente, comprendendo istintivamente che il potere della storia risiedeva proprio nella sua irrisolutezza. Fornire una soluzione avrebbe trasformato un'opera d'arte in un banale racconto del mistero. Lasciandoci nel dubbio, Weir ci costringe a confrontarci con i limiti della nostra comprensione, con l'idea che esistono forze nell'universo che la nostra logica non può contenere né spiegare.

Picnic ad Hanging Rock fu una pietra miliare della Australian New Wave, il movimento cinematografico che negli anni '70 rivelò al mondo talenti come Weir, George Miller e Bruce Beresford. Fu un film che definì un'identità nazionale non attraverso cliché folkloristici, ma esplorando la profonda e perturbante relazione tra i coloni europei e un continente antico e incomprensibile. È un film sul "colonial gothic", dove il terrore non viene da castelli diroccati e fantasmi, ma dalla luce accecante del giorno e da un paesaggio la cui bellezza è inseparabile dalla sua minaccia. La civiltà è un sottile strato di vernice che può essere grattato via in un istante, rivelando il nulla o il tutto che si nasconde al di sotto.

Alla fine, la domanda "cosa è successo alle ragazze?" è quella sbagliata. La domanda giusta è "cosa rivela la loro scomparsa su di noi?". Rivela la nostra disperata necessità di risposte, il nostro terrore del vuoto, la fragilità delle nostre costruzioni sociali e razionali. Il film ci nega la catarsi della soluzione, offrendoci in cambio qualcosa di molto più prezioso e duraturo: un enigma sempiterno. Un'opera che, a ogni visione, non offre nuove certezze, ma approfondisce la bellezza del suo mistero, lasciandoci esattamente come i suoi personaggi: smarriti, incantati e per sempre ossessionati da un segreto che la roccia custodirà in eterno. Come recita la poesia di Edgar Allan Poe citata nel film, e che ne costituisce la chiave ermeneutica definitiva: "Ciò che vediamo e ciò che sembriamo non è che un sogno. Un sogno dentro a un sogno".

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