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Platoon

1986

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Ci sono guerre che il cinema ha raccontato con distanza epica, altre con astrazione filosofica. E poi c'è la guerra del Vietnam secondo Oliver Stone. Platoon non è un film, è un esorcismo. È l'atto di un veterano che, armato di una macchina da presa invece che di un M16, torna nell'inferno della sua giovinezza per dargli un ordine, un senso, una forma. Il risultato è un'opera di una potenza viscerale quasi insostenibile, un film che odora di fango, sudore e cordite, che ti afferra alla gola e non ti lascia più. Non è la visione più intellettuale o la più poetica sulla tragedia del Vietnam, ma è, senza alcun dubbio, la più brutalmente, terribilmente onesta.

Per comprendere la grandezza e l'unicità di questo film, è quasi obbligatorio inserirlo in una sorta di trittico sacro del cinema bellico, accanto ai suoi due fratelli spirituali, ugualmente monumentali ma profondamente diversi. Se Apocalypse Now di Coppola è il viaggio metafisico nel Vietnam, un'opera lirica e allucinata che usa la guerra come palcoscenico per un'indagine sul cuore di tenebra dell'uomo, e La sottile linea rossa di Malick è il poema trascendentale, una meditazione panteista sulla natura, la grazia e la violenza, Platoon è il pannello centrale, quello realistico. È il racconto dal basso, la cronaca della guerra sporca vista ad altezza d'uomo, dal punto di vista del grunt, il fante nella giungla. Stone non è interessato al mito o alla cosmologia; è interessato alla sopravvivenza, alla paura, alla fatica e, soprattutto, al collasso morale che avviene quando a diciannove anni ti viene dato in mano un fucile e ti viene detto che la tua vita non vale niente.

Il cinema di Oliver Stone, specialmente quello degli anni '80, è l'antitesi della sottigliezza. È un cinema fisico, aggressivo, politico. La sua macchina da presa è uno strumento di immersione totale. Il regista ci butta letteralmente nel mezzo della mischia. I suoi campi larghi sulla giungla, di una bellezza lussureggiante e minacciosa, vengono costantemente squarciati da veloci, claustrofobici primi piani sui volti terrorizzati dei soldati. La camera a mano, febbrile e instabile durante i combattimenti, ci trasmette il panico e il disorientamento. L'estetica di Stone è quella di un regista che ha lasciato il segno perché ha avuto il coraggio di essere diretto, di sporcarsi le mani. Il suo film fu un atto di revisionismo necessario, una risposta rabbiosa ai film reaganiani come Rambo 2 che avevano tentato di "rivincere" la guerra del Vietnam sullo schermo, trasformando un trauma nazionale in un'avventura muscolare. Stone afferra quel mito e lo fa letteralmente a pezzi.

La storia è quella di una discesa agli inferi e di una dolorosa educazione morale. Il protagonista, Chris Taylor (un alter ego dello stesso Stone, interpretato da un giovane Charlie Sheen), è un volontario, un ragazzo di buona famiglia che ha abbandonato il college per un impulso idealistico. Arrivato in Vietnam, scopre che il nemico non è solo il Viet Cong, invisibile e letale, ma è anche il caldo, gli insetti, la fatica e, soprattutto, la divisione che lacera il suo stesso plotone. La genialità della sceneggiatura di Stone è quella di strutturare il film come una moderna moralità medievale, dove il bene e il male si fronteggiano con la stessa divisa in una sorta di manicheismo. L'anima di Chris, e per estensione quella dell'America, è contesa tra due figure paterne antitetiche: il Sergente Barnes (un Tom Berenger dal volto sfregiato che è una maschera di puro nichilismo) e il Sergente Elias (un Willem Dafoe quasi cristologico).

Barnes è la guerra. È il prodotto della violenza, un soldato supremo, efficiente e spietato, che crede che l'unico modo per sopravvivere all'inferno sia diventare il diavolo più forte. Elias, al contrario, è l'umanità che cerca di resistere all'inferno. È il soldato che non ha perso la compassione, che vede ancora le persone dietro le uniformi e che si oppone alla brutalità gratuita. Lo scontro tra i due, che culmina nell'omicidio a sangue freddo di Elias da parte di Barnes durante un combattimento, è il vero cuore del film. E il martirio del Sergente Elias diventa un atto di redenzione per il Vietnam. La sua morte, con quella posa iconica, braccia al cielo, mentre viene crivellato di colpi, è una pietà della giungla, un sacrificio che costringe Chris a uscire dalla sua passività e a compiere una scelta. Per sopravvivere non fisicamente, ma moralmente, deve "uccidere" il padre cattivo, Barnes, e abbracciare l'eredità del padre buono, Elias. La celebre frase finale di Chris, "Non combattevamo il nemico, combattevamo noi stessi. E il nemico era dentro di noi", è la tesi esplicita del film e il suo lascito spirituale.

Questo approccio distingue Platoon da altri grandi racconti del Vietnam. Se Il Cacciatore di Michael Cimino esplorava la ferita che la guerra infliggeva alla classe operaia americana e alla sua idea di comunità, e Full Metal Jacket di Kubrick analizzava con lucidità quasi scientifica il processo di disumanizzazione che crea un soldato, Platoon è l'unico a concentrarsi così visceralmente sul conflitto morale interno al plotone, sul campo. È un film che non offre alcuna catarsi patriottica. La vittoria, se c'è, è solo quella, personale e amarissima, di essere sopravvissuti non solo ai proiettili, ma anche al proprio lato oscuro. Per la sua onestà brutale, per la sua potenza emotiva e per essere stato il primo, vero monumento cinematografico costruito dalla prospettiva di chi quella guerra l'ha combattuta davvero, Platoon è dunque un'opera capitale, un'esperienza cinematografica che, una volta vista, non si dimentica più.

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