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Play Time - Tempo di divertimento

1967

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Una cattedrale di vetro, acciaio e gag millimetriche costruita da un architetto della commedia, un visionario che ha quasi sacrificato se stesso e la sua carriera sull'altare di un'ambizione artistica quasi folle. Tutto questo è Playtime, ennesima perla del grande maestro della comicità surreale Jacques Tati, il quale stanco di essere identificato con il suo alter ego, l'ineffabile e maldestro Monsieur Hulot, decise non di ucciderlo, ma di fare qualcosa di molto più radicale: perderlo nella folla, ridurlo a una silhouette tra le tante, per poter dirigere la sua vera opera magna. Il risultato è una commedia gigantesca, una sinfonia visiva e sonora sulla città moderna che è al contempo una critica spietata e un'affettuosa lettera d'amore. È uno dei film più audaci, formalmente rivoluzionari e semplicemente divertenti mai realizzati, un'opera la cui complessità si svela a ogni visione.

Il film, apparentemente, segue due fili narrativi quasi inesistenti: un gruppo di turiste americane che arriva a Parigi per un tour di 24 ore, e Monsieur Hulot che deve recarsi a un colloquio di lavoro in un labirintico palazzo di uffici. Ma questa è solo una scusa. La vera protagonista del film è la città stessa, o meglio, la "Tativille": una versione ipermodernista e fittizia di Parigi, interamente costruita da Tati su un vasto terreno alle porte della capitale. Questa scelta produttiva, un'impresa titanica che portò il regista alla bancarotta, è la chiave per comprendere il film. Tati non voleva commentare la realtà, voleva costruirne una propria, un mondo ermetico di superfici riflettenti, angoli retti e materiali impersonali, per poterne studiare le assurdità come un entomologo studia una colonia di insetti. In questo mondo, Hulot non è più il centro della comicità. È una bussola smarrita, un elemento di disturbo occasionale. La vera commedia è diffusa, democratica, sparsa in ogni angolo dell'inquadratura. Non si sa mai con certezza dove si andrà a ridere, e questo rende le visioni successive appaganti quanto la prima, se non di più.

Per apprezzare la radicalità di Tati, un parallelo con i suoi unici pari nel pantheon della comicità fisica, Buster Keaton e Charlie Chaplin, è illuminante. Sono tre maestri che rappresentano tre diverse visioni del mondo. Chaplin è il sentimentalista, il suo Charlot è un'icona di pathos, un vagabondo la cui lotta per la dignità e l'amore in un mondo crudele è il motore della commedia. Il suo è un cinema del cuore, focalizzato sull'emozione del singolo.Keaton è lo stoico surrealista, la sua faccia di pietra è il punto fermo in un universo caotico e spesso malevolo, un cosmo di oggetti che si ribellano e di forze naturali avverse. La sua comicità nasce dallo scontro tra la logica imperturbabile dell'individuo e la logica assurda del mondo.Tati, infine, è l'architetto osservatore. Il suo Hulot non è un eroe tragico né un acrobata cosmico. È un uomo gentile e démodé, un catalizzatore involontario di caos la cui umanità analogica entra in conflitto con un mondo digitale. Ma la genialità di Tati sta nel non focalizzarsi solo su di lui. Usa una fotografia in profondità di campo e inquadrature fisse e ampie, spesso girate nel glorioso formato 70mm, dove ogni piano dell'immagine è a fuoco. L'occhio dello spettatore è libero di vagare, di scoprire la piccola gag che si svolge in secondo piano mentre un'altra accade in primo. È un cinema che esige uno spettatore attivo, che lo invita a giocare. Le sue composizioni ricordano i quadri affollati di Pieter Bruegel il Vecchio, dove decine di piccole storie si svolgono simultaneamente.

Ma cosa rende Jacques Tati così grande nella storia del cinema? La sua grandezza risiede in questa fusione unica di comicità popolare e avanguardia formale. Ha capito, prima di molti altri, che nella modernità il suono era importante quanto l'immagine. Il sound design di Playtime è un capolavoro. Il dialogo è ridotto a un mormorio multilingue, un brusio di fondo quasi incomprensibile. I veri protagonisti sonori sono i rumori del mondo moderno: il ronzio sintetico delle poltrone in skai, il sibilo pneumatico delle porte, lo scatto secco di un accendino, il ticchettio dei tacchi su un pavimento lucido. È una sinfonia concreta dell'artificiale, che Tati usa per creare gag uditive tanto complesse quanto quelle visive.

E poi c'è la sua visione del mondo. Tati critica la sterilità dell'architettura modernista, la sua pretesa di efficienza che si traduce in alienazione. Ma non è mai un critico cinico o disperato. Il suo sguardo è sempre intriso di un'affettuosa umanità. La sequenza centrale, e forse la più bella, è quella dell'inaugurazione del ristorante Royal Garden. Quello che inizia come un disastro (operai che finiscono le installazioni mentre i clienti entrano, pilastri che si sgretolano, impianti che non funzionano) si trasforma lentamente, grazie all'intervento involontario di Hulot e alla resilienza dei presenti, in una vera e propria festa. Le rovine del design moderno diventano il palcoscenico per un'autentica, caotica e gioiosa interazione umana. Tati ci dice che la vita, con la sua meravigliosa imperfezione, trionfa sempre sulla sterile perfezione dei progetti. Il finale del film, con il carosello delle auto in una rotonda che si trasforma in un balletto quasi gioioso, è la sintesi del suo pensiero: anche nel cuore dell'alienazione moderna, si possono trovare momenti di grazia, di gioco, di playtime appunto. Quest'opera è il magnum opus di Tati, un'opera la cui ambizione smisurata ne decretò il fallimento commerciale ma ne assicurò l'immortalità artistica. È un film che va visto e rivisto, un'esperienza che a ogni visione regala nuove scoperte, confermando che il genio, a volte, consiste semplicemente nel guardare il mondo con un'attenzione e un affetto infiniti.

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