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Ponyo sulla scogliera

2008

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Hayao Miyazaki dimostra una volta ancora, qualora ce ne fosse bisogno, il suo immenso talento artistico che si traduce in un incantevole afflato poetico che infonde in ogni disegno. Questa capacità di infondere anima e vita in ogni tratto, di far pulsare il foglio con l'energia di un'emozione pura, è un marchio distintivo che lo eleva al di là del semplice animatore, facendone un vero e proprio demiurgo dell'immaginario. Non si tratta solo di tecnica sopraffina, ma di un'estetica che persegue la verità del sentimento, la risonanza del mito, la delicatezza del quotidiano.

Il Maestro nipponico unisce a questa componente elegiaca un’incredibile percezione del Fantastico, una potenza visionaria che fa scaturire dalla Realtà stessa le creature più surreali con una naturalezza davvero disarmante. In Ponyo, questa alchimia raggiunge vette quasi zen, dove il confine tra il reale e il prodigioso si dissolve in un flusso continuo, proprio come l'acqua che è l'elemento primordiale del film. Non è una magia ostentata o un espediente narrativo; è la magia intrinseca al mondo, se solo si è disposti a vederla con occhi non ancora viziati dalla disincantata razionalità adulta. È la medesima meraviglia che pervade l'incontro con i Totoro o il volo di Kiki, un sottile strato di incanto che rivela la profondità e l'anima nascosta della natura e dell'esistenza. L'influenza dello Shintoismo, che anima ogni elemento naturale, è palpabile, ma trasfigurata in una visione universale e accessibile.

L’intima bellezza delle sue opere risiede proprio in questa delicata commistione di poesia e sogno, entrambi perfettamente innervati al tessuto reale. Miyazaki non si limita a dipingere mondi fantastici; egli ci invita a riconoscerli nel nostro. La scelta di tornare all'animazione interamente disegnata a mano per Ponyo, persino nei fluidi e complessi movimenti delle onde e delle creature marine, è una dichiarazione d'intenti. Essa conferisce al film una sensazione organica, quasi pittorica, che rispecchia l'innocenza e la spontaneità dell'infanzia, e si traduce in una fluidità che sembra mimare l'essenza stessa dell'acqua, mai uguale a sé stessa, sempre in divenire.

Così che si ha l’impressione, assistendo ad un suo film, di sospendere l’analisi razionale del Reale e di accettare, tramite un patto segreto, ogni stupore e meraviglia che scaturirà dalla matita di Miyazaki con entusiastica adesione al suo progetto. È un'esperienza quasi regressiva, nel senso più nobile del termine: si è invitati a spogliarsi delle armature intellettuali, a dimenticare le categorie del possibile e dell'impossibile, per abbracciare una logica onirica, dove la logica dei sentimenti e della percezione intuitiva prevale sulla stretta causalità. Il pubblico è chiamato a diventare complice, a riattivare quella "fede puerile" che permetteva di credere ai racconti di fate e ai mondi paralleli con la stessa convinzione con cui si crede alla sedia su cui si è seduti. Questo patto non è un atto di ingenuità, ma un risveglio di sensibilità, un promemoria che l'esistenza è per sua natura meravigliosa, se solo si conserva la capacità di esserne sorpresi.

Una piccola creatura metà pesce metà umana sfugge al controllo di uno stregone del mare e rimane imprigionata in una bottiglia sul fondo del mare. Questo incipit, che richiama echi della sirenetta di Andersen ma la rielabora in chiave squisitamente miyazakiana, introduce immediatamente il tema della libertà e della scoperta. Cercando di divincolarsi dalla sua prigione di vetro riesce a raggiungere la riva dove viene raccolta da Sôsuke, un bambino che stava giocando da quelle parti. L'incontro tra i due non è un caso, ma un allineamento di purezza e innocenza che permette al fantastico di irrompere.

Rompendo la bottiglia per liberare la piccola creatura, Sôsuke si ferisce un dito ed una goccia del suo sangue finisce in bocca al piccolo esserino. Sarà l’inizio di una trasformazione per Ponyo che la porterà a diventare una bambina, mettendo in pericolo i fragili equilibri marini. Qui Miyazaki tocca un tema ricorrente nella sua poetica: l'interconnessione tra l'uomo e la natura, e le conseguenze – spesso disastrose – dell'azione umana sull'ambiente. La trasformazione di Ponyo non è solo una metamorfosi fisica, ma un catalizzatore di eventi naturali che richiamano la forza primordiale e talvolta distruttiva degli oceani, un monito sottile ma potente sulla delicatezza del nostro ecosistema.

Ponyo e Sôsuke fanno amicizia nel frattempo e girano per il promontorio con un piccolo battello a vapore. Il loro legame è l'epicentro emotivo del film, un'amicizia che trascende le barriere della specie e degli elementi, fondata su una fiducia e un amore incondizionati che solo l'infanzia può esprimere con tale candore. La loro avventura non è una fuga, ma un viaggio di scoperta e accettazione, una celebrazione della vita in tutte le sue forme.

Il loro amore cambierà il tempo e gli oceani, ma forse anche un po’ la nostra anima. È in questa affermazione, apparentemente semplice, che risiede la vera potenza catartica del film. Attraverso gli occhi di Ponyo e Sôsuke, siamo costretti a riflettere sul significato della purezza, sulla forza dell'innocenza e sulla capacità del sentimento autentico di superare ogni barriera, di armonizzare persino le forze della natura. Il loro affetto diventa un faro in una tempesta di trasformazioni, dimostrando che la vera magia risiede nella capacità umana di amare senza riserve. Questo è il dono che Miyazaki ci lascia: non solo un film, ma un'esperienza che ci riconnette alla parte più autentica e luminosa di noi stessi, ricordandoci la nostra intrinseca appartenenza al grande flusso della vita.

Menzione speciale per la struggente scena dell’apparizione della Grande Mammaria, la maestosa creatura femminile madre di Ponyo. È un momento di rara bellezza e profonda spiritualità. Il mare si fa spumeggiante, ilare, giocoso, cambia forma e colore, pesci dorati guizzano dalle spume, mentre a pelo dell’acqua nuota con il viso rivolto al cielo l’eterea divinità che viene in soccorso di sua figlia, avvolta in un nimbo di luce e serenità. Questa scena non è solo un culmine visivo, ma un'epifania archetipica. Granmamare non è solo un personaggio, ma la personificazione dell'Oceano stesso, della Madre Terra e di tutte le forze primordiali della natura. La sua apparizione evoca un senso di pace cosmica, un equilibrio ritrovato, e la sua grandezza non è minacciosa, ma rassicurante e infinitamente saggia. È la quintessenza del divino immanente, un'immagine che risuona con antiche mitologie della Grande Madre, incarnando la forza generatrice e guaritrice del mondo, capace di contenere il caos e di ristabilire l'ordine con un solo sguardo benevolo.

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