Priscilla - La regina del deserto
1994
Vota questo film
Media: 4.00 / 5
(6 voti)
Regista
Un autobus sgangherato, battezzato con un nome da matrona del sud degli Stati Uniti, fende il deserto rosso come una ferita di rossetto su un volto di roccia. Non è un semplice veicolo. È un carrozzone di Tespi post-moderno, un'arca luccicante che traghetta i suoi passeggeri non verso la salvezza biblica, ma verso un'epifania profana nel cuore vuoto e pulsante dell'Australia. Priscilla - La regina del deserto di Stephan Elliott non è mai stato soltanto un road movie. È un'Odissea in drag, un On the Road di Kerouac riscritto con il libretto di un'opera lirica e un guardaroba rubato a Cher. Se i beatnik cercavano la verità nell'autenticità sbrindellata della strada, i nostri tre eroi la trovano nell'autenticità dell'artificio, nella costruzione meticolosa di un sé più vero del vero.
Il film si apre a Sydney, un universo urbano di luci stroboscopiche e performance notturne, ma la sua vera anima si rivela solo quando questa bolla di civiltà viene lasciata alle spalle. Il viaggio verso Alice Springs, intrapreso da Tick/Mitzi (un Hugo Weaving la cui vulnerabilità è un presagio della sua futura grandezza), Adam/Felicia (un Guy Pearce androgino e sfrontato, un Dioniso alimentato a pop svedese) e la matriarca transessuale Bernadette (un Terence Stamp la cui performance è un atto di sublime decostruzione della propria icona machista), non è una fuga. È un'invasione. Un'incursione culturale armata di piume di struzzo e canzoni degli ABBA, destinata a piantare la bandiera dell'alterità nel suolo sacro e conservatore dell'Outback.
La genialità estetica di Elliott risiede proprio in questo scontro titanico tra due inconciliabili. Da un lato, la magnificenza primordiale e quasi monocromatica del deserto australiano, un paesaggio che impone silenzio e introspezione, la cui immensità annichilisce l'ego. Dall'altro, l'esplosione cromatica, la texture sintetica, la geometria scultorea dei costumi di Lizzy Gardiner e Tim Chappel. Ogni abito è un manifesto, ogni pezzo di lamé una dichiarazione di guerra alla monotonia. Quando Felicia, in cima a Priscilla, cavalca il deserto con un'enorme stola d'argento che si gonfia come una vela mitologica, sulle note di "Finalmente la vita è mia" di Verdi, non assistiamo a una semplice scena iconica. Assistiamo a un atto di mitopoiesi. È Fitzcarraldo di Herzog che trascina la sua nave sulla montagna, ma al posto di una nave c'è un'opera d'arte indossabile, e al posto della giungla amazzonica c'è un vuoto ancora più spaventoso: il conformismo.
Questa opposizione tra natura e artificio è la chiave di volta del film. L'Outback, con la sua estetica del reale e dell'essenziale, mette a nudo i personaggi, costringendoli a confrontarsi con ciò che si nasconde sotto il cerone e le parrucche. Tick deve affrontare la paternità e il terrore di non essere accettato dal figlio. Felicia, la cui esuberanza nasconde profonde ferite, si scontra con la violenza omofoba più brutale, in una scena che squarcia il velo carnascialesco del film e ci ricorda che, fuori dal palco, il mondo reale è armato di ignoranza. E Bernadette, monumento di eleganza e malinconia, deve elaborare un lutto e riscoprire la possibilità di un amore in un luogo dove non avrebbe mai pensato di trovarlo. Il deserto non li giudica; funge da catalizzatore, da specchio spietato e purificatore. In questo senso, Priscilla è un western al contrario: non è la conquista di una frontiera fisica, ma la difesa di una frontiera interiore.
Il casting è un colpo di genio meta-testuale che eleva il film al di sopra della semplice commedia queer. Hugo Weaving e Guy Pearce erano talenti nascenti, ma è la scelta di Terence Stamp a compiere il miracolo. Stamp, l'angelo vendicatore di Teorema di Pasolini, il gangster glaciale di The Limey, l'incarnazione di una mascolinità britannica tagliente e pericolosa, si cala nei panni di Bernadette con una grazia e una dignità che disarmano. La sua performance non è una parodia né un'imitazione; è un'incarnazione. Ogni suo gesto, ogni sguardo stanco ma indomito, porta con sé il peso di una vita di battaglie. Vedere il Generale Zod di Superman II insegnare a un gruppo di rudi minatori come essere gentili con una donna è un momento di cinema puro, un cortocircuito semiotico che parla della fluidità dell'identità in modo più eloquente di qualsiasi dialogo.
Uscito nel 1994, in un'epoca in cui la rappresentazione cinematografica della comunità LGBTQ+ era spesso legata al dramma della crisi dell'AIDS (Philadelphia era dell'anno precedente), Priscilla fu un'esplosione di gioia sovversiva. Non negava il dolore o il pregiudizio – anzi, lo mostrava senza filtri – ma si rifiutava di esserne definito. La sua arma era l'umorismo, la sua filosofia il camp, inteso nel senso più nobile del termine, quello teorizzato da Susan Sontag: "il trionfo dello stile epiceno", l'amore per l'esagerazione e per l'artificiale come forma di sensibilità estetica. La colonna sonora, un breviario di inni disco e pop, non è un semplice sottofondo. È il linguaggio liturgico di questa fede nella gioia come atto di resistenza. "I Will Survive" di Gloria Gaynor non è solo una canzone da cantare in un bar sperduto; è il Vangelo secondo Bernadette, Tick e Felicia, cantato a una comunità di aborigeni che, in uno dei momenti più toccanti e intelligenti del film, riconoscono in questi alieni colorati dei fratelli nella marginalità, anime affini che usano la performance e il rito per sopravvivere e definire la propria tribù.
Il film di Elliott è una complessa macchina narrativa che funziona su più livelli. È una commedia degli equivoci dal ritmo perfetto, un dramma familiare sulla riconciliazione, una critica sociale acuta e, soprattutto, un saggio visivo sulla natura della performance. Chi siamo veramente? Siamo il nostro volto struccato all'alba o la maschera scintillante che indossiamo sul palco? Priscilla suggerisce che la domanda è mal posta. Non c'è una gerarchia tra le due cose. L'identità non è un nucleo da scoprire, ma un palcoscenico da costruire, giorno dopo giorno, con coraggio, ironia e una quantità smodata di brillantini. L'autobus, alla fine, non è solo il mezzo, ma il messaggio stesso: un guscio fragile e personalizzato, pieno di sogni e cicatrici, che ci trasporta attraverso il deserto dell'esistenza, lasciandosi dietro una scia indelebile di favolosa, irriducibile polvere di stelle.
Attori Principali
Generi
Paesi
Galleria





Commenti
Loading comments...
