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Pulp Fiction

1994

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Il film che più ha influenzato gli anni novanta: violento, asincrono e verboso è un’opera fondamentale per comprendere il cambiamento della cultura cinematografica per quel che riguarda il genere gangster movie, ma, invero, per l’intera industria dell’intrattenimento. Non si tratta solamente di una pietra miliare nel panorama del noir contemporaneo, ma di un vero e proprio spartiacque culturale che ha ridefinito le convenzioni narrative e lo stile visivo, inaugurando un'estetica post-moderna che sarebbe diventata la cifra stilistica di un decennio e oltre. La sua irriverente libertà strutturale e l'audace miscela di pulp fiction e raffinati dialoghi intellettuali hanno dimostrato che il cinema indipendente poteva non solo competere con le grandi produzioni hollywoodiane, ma surclassarle in termini di impatto e risonanza culturale.

Un’opera nuova, sofisticata, densa di dialoghi, personaggi, e situazioni che hanno inciso significativamente sulla scena culturale mondiale, non limitandosi ad influenzare il cinema ma plasmando un repertorio iconografico entrato a far parte del vissuto di ognuno di noi. Pensiamo all'iconico taglio a caschetto di Mia Wallace, alla coreografia irresistibile del twist al Jack Rabbit Slim’s, alla conversazione filosofica sull'hamburger "Royale with Cheese" o alla disarmante comicità del monologo sul massaggio ai piedi. Questi non sono semplici frammenti di pellicola, ma veri e propri archetipi narrativi e visivi che hanno trasceso lo schermo, radicandosi profondamente nella memoria collettiva e divenendo punti di riferimento imprescindibili nella cultura pop. È un film che si è mangiato il suo stesso genere, lo ha digerito e lo ha restituito sotto forma di un'esperienza cerebrale e viscerale al tempo stesso.

Quentin Tarantino, due anni dopo Reservoir Dogs, il film che lo aveva segnalato a critica e pubblico, tira fuori una splendida galoppata attraverso le anime forti della città: gangster dai toni biblici, killer cocainomani di ritorno da Amsterdam, pugili doppiogiochisti, boss sodomizzati, poliziotti sodomiti, vamp drogate, annoiate e sofisticate, rapinatori che amano chiamarsi “coniglietto” e zucchina”, pusher molto ospitali. Questa galleria di figure ai margini, ognuna scolpita con una precisione quasi maniacale, vive e respira in un universo morale ambiguo, dove la violenza più efferata si mescola con momenti di inaspettata tenerezza o di banale quotidianità. Jules Winnfield, interpretato da un Samuel L. Jackson in stato di grazia, è l'esempio più lampante di questa complessità: un sicario che, pur citando Ezechiele 25:17 con furia omicida, è assalito da un'epifania sulla redenzione. Oppure Vincent Vega, lo strepitoso John Travolta nel ruolo che ne ha ridefinito la carriera, che si perde in digressioni sulla cultura europea mentre si prepara a compiere atti efferati. La loro umanità, spesso disfunzionale ma sempre presente, è il cuore pulsante del film, rendendo questi "mostri" stranamente empatici.

I suoi personaggi sono sempre in bilico tra devastazione morale e tenero disincanto: un branco di angeli famelici di vita vissuta, precipitati da qualche cielo nel sordido sottobosco della Città dove si combatte all’ultimo sangue per una boccata d’aria. Non sono eroi né antieroi in senso classico, ma piuttosto spiriti vaganti in un purgatorio urbano, alla ricerca di un senso, di un posto, o semplicemente di sopravvivenza. La loro vulnerabilità emerge nei dialoghi più inaspettati, nelle pause, negli sguardi. È un affresco della condizione umana nel suo lato più crudo eppure incredibilmente poetico, dove la violenza è un dato di fatto, ma non l'unica dimensione dell'esistenza. Tarantino li dipinge con pennellate audaci, infondendo loro una vitalità quasi pittorica, come figure di un Caravaggio moderno, illuminati da una luce drammatica che ne esalta tanto le brutture quanto i rari bagliori di umanità.

Un’opera che ha segnato il debutto della scansione temporale “partizionata”, una sorta di marchio di fabbrica di Tarantino iniziato con le Iene e giunto al suo culmine in questo film: ogni scena è slegata dal contesto cronologico del film. Questa tecnica, lungi dall'essere una mera esibizione stilistica, è intrinseca alla visione d'autore, permettendo di esplorare le ramificazioni delle scelte dei personaggi, di creare suspense attraverso la conoscenza anticipata di eventi successivi, e di conferire un respiro quasi mitologico alle singole vicende. Non è semplicemente una rottura della linearità; è una riorganizzazione cosciente del tempo narrativo, che permette di soffermarsi sui dettagli, di esplorare le sfumature psicologiche e di costruire un mosaico più complesso e stratificato di storie interconnesse, ricordando in certi aspetti le costruzioni narrative di Akira Kurosawa in opere come "Rashomon", sebbene in un contesto totalmente differente.

Il tempo, come spesso i dialoghi, è retto da un temperamento diacronico sincopato, quasi uno spartito jazz che s’avviluppa con spontaneità al narrato incrociandone i ritmi spezzandone la linearità. I dialoghi non sono semplici scambi di battute; sono aforismi filosofici, divagazioni pop, confessioni intime e minacce gelide, spesso tenuti su un registro di tensione sottile che può esplodere in qualsiasi momento. La struttura non lineare del racconto, frammentata in episodi apparentemente autonomi che solo alla fine rivelano la loro intricata tessitura, non solo sfida le convenzioni narrative ma costringe lo spettatore a un coinvolgimento attivo, a una rielaborazione costante delle informazioni, trasformando la visione in un'esperienza quasi interattiva. Questa disarticolazione temporale, lungi dal generare confusione, crea un senso di destino ineluttabile, dove il passato, il presente e il futuro si influenzano a vicenda in un ciclo senza fine di causa ed effetto.

Un’opera che scava nell’animo metropolitano di ognuno di noi, con un montaggio e una regia di maniacale virtù, fregiandosi di interpretazioni magistrali e dialoghi deliziosamente brutali, dialetticamente giganteschi. La direzione di Tarantino è un virtuosismo calibrato: l'uso sapiente della steadycam, i celebri "trunk shots" (inquadrature dal bagagliaio), le lunghe sequenze ininterrotte che lasciano spazio agli attori e ai dialoghi. Il tutto è amplificato da una colonna sonora che è molto più di un mero accompagnamento; è una selezione eclettica di brani surf rock, soul e pop che diventano parte integrante del racconto, commentando, anticipando o contraddicendo l'azione sullo schermo. Le performance attoriali sono a dir poco leggendarie: dal rinascimento di John Travolta, alla grazia enigmatica di Uma Thurman, all'esplosività carismatica di Samuel L. Jackson e alla rocciosa vulnerabilità di Bruce Willis. Ogni attore è un ingranaggio perfetto in questa macchina narrativa impeccabile, contribuendo a creare personaggi indimenticabili la cui brutalità è spesso bilanciata da una profonda, a volte grottesca, onestà.

Si viene magneticamente trascinati nelle storie di ognuno di questi antieroi e non si vorrebbe più lasciarli. L'incanto di "Pulp Fiction" risiede proprio in questa capacità di avvolgere lo spettatore in un universo parallelo, dove la violenza è estetica e i personaggi, pur immersi in un degrado morale, brillano di una luce quasi mitologica. Non è solo un film da vedere, ma un'esperienza da vivere, un viaggio in un labirinto di storie che, una volta intrapreso, ci si rifiuta di abbandonare, rimanendo indelebilmente impressi nella coscienza collettiva come un capolavoro senza tempo e senza precedenti.

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