Quadrophenia
1979
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Regista
Un parka militare è un’armatura. Un bozzolo. Una dichiarazione di guerra e al contempo un sudario in cui avvolgere la propria fragile individualità. Dentro quel cappotto verde oliva, standardizzato e anonimo, si nasconde la più feroce delle contraddizioni giovanili: la ricerca spasmodica di un’identità unica attraverso l'adesione totale a un’uniforme di gruppo. Franc Roddam, nel suo esordio folgorante del 1979, Quadrophenia, non si limita a filmare una subcultura; ne seziona l’anima nevrotica, esponendo il paradosso di una generazione che, per sentirsi qualcuno, doveva prima diventare come tutti gli altri.
Il film, trasposizione dell'omonima opera rock degli Who del 1973, è un oggetto cinematografico singolare, un reperto stratificato di nostalgia. Realizzato sul finire degli anni Settanta, nel crepuscolo fumoso del punk e all’alba del grigiore thatcheriano, guarda indietro al 1964, a un’Inghilterra che sembrava vibrare di un’energia diversa, più ingenua ma non meno violenta. È uno sguardo retrospettivo che non indulge mai nel sentimentalismo. Anzi, la lente di Roddam è impietosa, quasi documentaristica, intrisa di quel realismo che il cinema britannico aveva già eletto a proprio canone estetico con i "kitchen sink drama" di Karel Reisz e Tony Richardson. Il Jimmy Cooper di Phil Daniels non è un eroe ribelle da poster, ma l'ultimo discendente di quella stirpe di "angry young men" della classe operaia, un Arthur Seaton su una Lambretta truccata, la cui rabbia non ha un bersaglio politico definito, ma si disperde nel vuoto pneumatico di un'esistenza senza scopo.
La "quadrofenia" del titolo, che nell'album originale alludeva alle quattro personalità dei membri degli Who fuse in un unico protagonista, nel film diventa una condizione esistenziale. Jimmy è frammentato, una crisalide che non riesce a diventare farfalla. È un figlio ossequioso a casa, un postino frustrato al lavoro, un dio anfetaminico sulla pista da ballo e un soldato senza causa per le strade di Brighton. Nessuna di queste identità è completa, nessuna è autentica. Sono maschere intercambiabili indossate per sopravvivere, per colmare il divario insopportabile tra chi è e chi vorrebbe essere. In questo, Jimmy è un fratello di sangue di Holden Caulfield, un altro naufrago adolescente alla deriva in un mondo di "phonies", di falsità adulte. Ma se la ribellione di Holden è interiore, verbale, quella di Jimmy è cinetica, fisica. È nel modo in cui lucida ossessivamente gli specchietti del suo scooter, nel rigore quasi sacerdotale con cui sceglie il suo abito su misura, nella violenza esplosiva e disorganizzata della battaglia sulla spiaggia.
Roddam orchestra la celebre sequenza dello scontro tra Mods e Rockers a Brighton non come un'epica battaglia generazionale, ma come un balletto caotico e disperato. È una rissa che assomiglia più a un carnevale grottesco che a una rivoluzione. La camera a mano si incolla ai volti, cattura il sudore, la paura, l'esaltazione momentanea che si spegne in un istante. L'influenza del Neorealismo italiano è palpabile: la strada è il vero palcoscenico, i volti sono mappe di desideri e frustrazioni, la realtà irrompe con la forza di un pugno nello stomaco. Non c’è glorificazione. C’è solo un’umanità dolente che cerca una catarsi effimera nella violenza tribale, un epifenomeno di un malessere sociale più profondo che la Swinging London nascondeva sotto i suoi tappeti colorati.
L'uso della musica degli Who è magistrale proprio perché anti-musicale. A differenza di un'opera come Tommy di Ken Russell, dove la musica è letteralmente messa in scena, in Quadrophenia le canzoni sono il flusso di coscienza di Jimmy, la colonna sonora della sua psiche frantumata. "The Real Me", "5:15", "Love, Reign o'er Me" non sono intermezzi canori; sono l'architettura sonora del suo collasso. Il film respira al ritmo della batteria di Keith Moon e dei riff di Pete Townshend. È un'anabasi allucinata nel cuore pulsante del rock, dove il suono non accompagna l'immagine, ma la genera, la deforma, la commenta con una lucidità spietata.
Ma il vero cuore nero del film, il suo nucleo tragico, risiede nella demolizione dell'idolo. Sting, in una delle sue prime e più iconiche apparizioni, incarna l'Ace Face, il "bell boy", il Mod definitivo. È l'archetipo, il modello irraggiungibile a cui Jimmy aspira. Freddo, elegante, carismatico, leader naturale. È il Re Artù di questa sgangherata tavola rotonda su due ruote. La sua scoperta, più tardi, nel suo umile lavoro di facchino d'albergo, è uno dei momenti più devastanti della storia del cinema sulla disillusione giovanile. È un colpo più duro di qualsiasi manganello della polizia. L'impalcatura mitologica su cui Jimmy aveva costruito la sua intera identità crolla miseramente. Se il re è un servo, allora cosa sono i suoi cavalieri? L'intera subcultura si rivela per quello che è: una recita, una parentesi, un costume da indossare nel weekend prima di tornare a timbrare il cartellino il lunedì mattina. La rivoluzione era solo una vacanza al mare.
Questa rivelazione spinge Jimmy verso l'atto finale, un gesto di nichilismo purificatore. Il suo ritorno a Brighton, da solo, è un pellegrinaggio inverso. Ripercorre i luoghi del trionfo effimero per trovarli vuoti, spogliati di ogni significato. L'apice è la sequenza finale, un capolavoro di montaggio e simbolismo. Mentre "I've Had Enough" esplode, vediamo Jimmy spingere lo scooter dell'Ace Face, l'ultimo feticcio rimasto, verso le bianche scogliere di Beachy Head. Il volo del motorino nel vuoto è un'immagine potentissima, quasi un suicidio per procura. È la morte simbolica di un sogno, il rigetto violento dell'unica cosa che gli aveva dato un senso. Roddam, con un'ellissi geniale, ci mostra poi Jimmy che cammina contro un sole al tramonto, un finale aperto che nega la facile lettura del suicidio. Non è la sua morte fisica che abbiamo visto, ma quella della sua identità Mod. È rinato? O è semplicemente vuoto, una tabula rasa su cui la società adulta potrà finalmente scrivere le proprie regole?
Quadrophenia trascende la sua cornice storica e culturale. Non è solo il miglior film mai realizzato sul fenomeno Mod; è un trattato universale sulla disperazione adolescenziale, sulla ricerca di un posto nel mondo e sulla dolorosa scoperta che le tribù che scegliamo per proteggerci sono spesso prigioni più soffocanti di quelle da cui cerchiamo di fuggire. Come un romanzo di formazione scritto col vetriolo, ci mostra un'educazione sentimentale che non porta alla maturità, ma all'azzeramento. Il viaggio di Jimmy non è una crescita, ma una spoliazione. Perde il lavoro, gli amici, la ragazza e, infine, il suo stesso mito. Ciò che rimane è un silenzio assordante, rotto solo dall'eco del mare che si infrange sulle scogliere. Un'armatura vuota, gettata via. E la domanda terribile, senza risposta: cosa c'è, adesso, al suo posto?
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