Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Quasi famosi

2000

Vota questo film

Media: 4.60 / 5

(5 voti)

Un'opera cinematografica che si prefigge di catturare l'essenza di un'epoca, specialmente una così mitopoietica come il rock degli anni Settanta, rischia costantemente di cadere nella trappola della caricatura agiografica o, peggio, della parodia involontaria. Cameron Crowe, con Quasi Famosi, non solo schiva con grazia funambolica questi pericoli, ma eleva il suo materiale semi-autobiografico a un livello di archetipo narrativo, trasformando un ricordo personale in un'esperienza universale. Il film è, nella sua essenza più pura, un Bildungsroman orchestrato sulle frequenze di una radio FM, un Wilhelm Meister di Goethe catapultato nel backstage polveroso di un tour americano, dove la chitarra elettrica sostituisce la poesia e i groupie – pardon, le "Band Aids" – sono le muse decadenti di un romanticismo sul viale del tramonto.

Il nostro eroe, William Miller, è una tabula rasa di quindici anni, un'anomalia anagrafica e culturale nel mondo che brama di abitare. Non è semplicemente un giovane giornalista; è l'ultimo iniziato a un rito misterico che sta per essere profanato dal mercantilismo. La sua innocenza è il filtro attraverso cui Crowe ci permette di rivivere non tanto il 1973 com'era, ma come si sentiva. È un meccanismo narrativo che ricorda da vicino il Nick Carraway di Fitzgerald: un osservatore esterno, ammaliato e al contempo respinto dal fascino corrotto di un mondo che non potrà mai veramente possedere. Come Nick, William è "dentro e fuori, contemporaneamente incantato e respinto dall'inesauribile varietà della vita". La band Stillwater è il suo Jay Gatsby, un'entità collettiva che proietta un'immagine di grandezza ("I am a golden god!") mentre al suo interno si consumano insicurezze e gelosie meschine.

La regia di Crowe è un atto d'amore proustiano, una recherche du temps perdu dove le madeleine sono i solchi di un vinile dei Led Zeppelin o l'odore di birra stantia su un tappeto d'albergo. La fotografia di John Toll, intrisa di tonalità calde, ambrate, quasi da diapositiva sbiadita, non si limita a evocare il periodo, ma lo trasfigura in un'età dell'oro perpetua, un'estate senza fine la cui conclusione, sappiamo, sarà inevitabilmente malinconica. Il film è pervaso da una consapevolezza crepuscolare. Non siamo nel 1967, l'utopia di Woodstock è già un ricordo sgranato. Siamo nel '73, il punto di flesso in cui il rock, da movimento contro-culturale, sta per diventare un colosso industriale, una "macchina dell'incendio". Gli Stillwater sono l'incarnazione di questa transizione: abbastanza bravi da sfiorare la grandezza, ma troppo insicuri per afferrarla, sospesi in un limbo tra l'autenticità artistica e le lusinghe del successo di massa.

In questo microcosmo, le figure che circondano William assumono una statura quasi mitologica. Penny Lane, interpretata da una Kate Hudson la cui radiosità è quasi dolorosa, è la Beatrice di questa Divina Commedia rock. Non è una semplice groupie; è una sacerdotessa, la custode di una fiamma che si sta estinguendo. Si definisce "Band Aid" perché il suo scopo non è il sesso, ma l'ispirazione, il tentativo di "guarire" l'anima degli artisti attraverso una devozione quasi religiosa alla loro musica. C'è in lei una fragilità tragica che la eleva al di sopra dello stereotipo. È l'ultima romantica in un'era che sta diventando cinica, una figura quasi byroniana condannata ad amare l'idea dell'artista più dell'uomo stesso, e la sua eventuale, straziante mercificazione – "venduta" per cinquanta dollari e una cassa di birra – è la sineddoche della svendita di un intero ideale.

A fare da contrappunto a questo idealismo ferito c'è la voce roca e disincantata di Lester Bangs, il leggendario critico di Creem Magazine. Interpretato da un Philip Seymour Hoffman monumentale, Bangs è il mentore socratico di William, il Virgilio che lo ammonisce dai gironi infernali dell'industria musicale. Le sue telefonate notturne sono sermoni laici sulla necessità della verità, dell'onestà e della distanza critica. "Sii onesto e spietato", gli intima. Bangs rappresenta l'etica del giornalismo rock prima che diventasse un'appendice dell'ufficio stampa delle case discografiche. È la coscienza del film, l'ancora di William al mondo reale, un promemoria costante che l'amicizia con le rockstar è un'illusione, un privilegio temporaneo concesso a chi detiene il potere della parola scritta. Il suo monologo sulla pericolosità dell'essere "cool" è una delle più acute riflessioni sul rapporto tra critica e arte mai apparse sullo schermo.

Il film raggiunge il suo apice emotivo in una scena che, sulla carta, potrebbe suonare banale: i membri della band e le Band Aids, divisi da litigi e tensioni, si ritrovano uniti in un momento di grazia cantando "Tiny Dancer" di Elton John a bordo del loro tour bus. Questa sequenza è l'epifania del film, un momento di comunione quasi spirituale che trascende le parole. È un'isola di sincerità in un oceano di artificio. In quel coro stonato e spontaneo, non ci sono più rockstar e fan, giornalisti e soggetti, ma solo un gruppo di anime perse che trovano conforto in una melodia. È una scena che Robert Altman avrebbe potuto dirigere, un arazzo di emozioni individuali che si fondono in un sentimento collettivo, dimostrando come la musica possa, anche solo per tre minuti, suturare le ferite dell'ego e della solitudine.

Ma Quasi Famosi è anche un'opera profondamente meta-testuale. William Miller è Cameron Crowe. Il film non è solo la cronaca di un'esperienza formativa, ma la riflessione di un uomo maturo sul significato di quell'esperienza. È la storia di come un osservatore impara che per raccontare la verità, a volte, è necessario immergersi completamente nella storia, rischiando di annegare, per poi riemergerne con una prospettiva più profonda e compassionevole. La lotta di William per scrivere il suo articolo per Rolling Stone, combattuto tra la fedeltà alla band che lo ha accolto e il dovere giornalistico predicato da Bangs, è la lotta di ogni artista per trovare la propria voce autentica. La scena della quasi-catastrofe aerea, dove le confessioni più recondite vengono urlate in preda al panico, funziona come una catarsi forzata, un siero della verità che fa crollare ogni maschera e costringe i personaggi, e William, a confrontarsi con la realtà nuda e cruda che si nasconde sotto la superficie scintillante del rock'n'roll.

In definitiva, Quasi Famosi trascende il genere del "film sul rock". È una lettera d'amore a una forma d'arte, certo, ma è soprattutto una meditazione universale sulla perdita dell'innocenza, sulla natura effimera della famiglia che ci scegliamo e sulla dolorosa ma necessaria ricerca di qualcosa di "reale" in un mondo sempre più mediato e costruito. È un film che ci ricorda che i momenti più importanti della nostra vita non sono quasi mai quelli sotto i riflettori, ma quelli che accadono "off the record", nelle stanze d'albergo silenziose dopo il concerto, nei viaggi in autobus all'alba, nelle conversazioni sussurrate che ci cambiano per sempre. È la cronaca di come si diventa quasi famosi, per poi scoprire che la vera storia, quella che vale la pena raccontare, è quella che succede mentre "sta tutto accadendo".

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8

Commenti

Loading comments...