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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Quattro matrimoni e un funerale

1994

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Sotto la superficie scintillante di una commedia romantica che ha definito un decennio, pulsa un cuore strutturalista di rara intelligenza. Quattro matrimoni e un funerale non è semplicemente la cronaca dell'amore esitante tra un inglese impacciato e un'americana disinvolta; è un'indagine quasi antropologica sui rituali che la società occidentale ha eretto per contenere le due forze più caotiche dell'esistenza: l'amore e la morte. Il regista Mike Newell e lo sceneggiatore Richard Curtis, quest'ultimo al suo zenit creativo, non si limitano a raccontare una storia: la incastonano in una cornice formale tanto rigida quanto geniale, un quintetto di cerimonie che funge da scheletro narrativo e, al contempo, da specchio delle nostre stesse vite scandite da inviti, abiti formali e discorsi preparati.

La struttura episodica, dettata dal titolo con una letteralità quasi brechtiana, potrebbe sembrare un espediente. Invece, è l'architrave emotiva del film. Ogni matrimonio è una variazione sul tema, un atto teatrale in cui i nostri protagonisti, una sgangherata compagnia di amici dell'alta borghesia londinese, recitano ruoli prestabiliti mentre le loro vite interiori ribollono di insicurezza e desiderio. C'è una qualità quasi da commedia shakespeariana, un Sogno di una notte di mezza estate ambientato tra le campagne dell'Home Counties e le chiese anglicane, dove gli accoppiamenti sembrano tanto predestinati quanto casuali. Charles, interpretato da un Hugh Grant che qui cementa per sempre il suo archetipo cinematografico, non è un eroe romantico nel senso classico. È un anti-eroe della decisione, un Amleto del "lo voglio", la cui esitazione è la vera forza motrice del racconto. Le sue balbuzie, le sue gaffe, il suo perpetuo ricorso all'intercalare "Fuck!" non sono semplici tic comici, ma la manifestazione esteriore di una paralisi emotiva squisitamente britannica, un terrore esistenziale mascherato da buona educazione. In lui riecheggia la figura dell'inetto della letteratura primo-novecentesca, un Bertie Wooster di P.G. Wodehouse gettato nell'arena sentimentale post-thatcheriana, incapace di navigare un mondo in cui le regole del corteggiamento sono state riscritte.

Di fronte a lui, Andie MacDowell nel ruolo di Carrie è la perfetta antitesi, e la sua criticata "americanità" è, in realtà, il punto nevralgico del film. Carrie non è un personaggio profondo; è un catalizzatore. È sicura di sé, sessualmente proattiva ("Ho avuto 33 amanti," confessa con una nonchalance che fa cortocircuitare il cervello di Charles) e pragmatica. Rappresenta l'Altro, la forza esterna che irrompe nel sistema chiuso e autoreferenziale dell'upper-middle class britannica. La sua presenza costringe Charles e il suo circolo a confrontarsi con la propria inerzia. Molti critici hanno sottolineato una presunta mancanza di alchimia tra i due, ma forse è proprio questa leggera dissonanza a rendere il loro legame credibile: non è un'unione di anime gemelle che si riconoscono all'istante, ma l'incontro-scontro di due universi culturali, un'attrazione basata tanto sul fascino quanto sulla reciproca incomprensione.

Ma il vero genio del film non risiede nella coppia protagonista, bensì nel suo coro greco. Il gruppo di amici – la cinica e struggente Fiona (una Kristin Scott Thomas superba), il gioviale e tonante Gareth (Simon Callow), il suo compagno più pacato Matthew (John Hannah), il bonario Tom e la svampita Scarlett – è il cuore pulsante dell'opera. Curtis scrive per loro un tessuto di dialoghi che è una partitura musicale, dove ogni personaggio ha una propria voce e un proprio ritmo, creando un'armonia di battute fulminanti, autoironia e affetto sincero. Questa non è solo una cerchia di amici; è una "famiglia trovata", un'istituzione sempre più centrale nella società contemporanea, che offre un riparo più solido e accogliente dei legami di sangue. È attraverso di loro che il film trascende i confini della commedia.

E poi, arriva il funerale. È qui che Quattro matrimoni e un funerale compie il suo scarto più audace, trasformandosi da intrattenimento brillante in opera di profonda risonanza emotiva. La morte improvvisa di Gareth è un pugno nello stomaco che squarcia il velo di leggerezza. La cerimonia, spoglia e laica, diventa il palcoscenico per uno dei momenti più potenti del cinema britannico degli anni '90: l'elogio funebre di Matthew, che recita "Funeral Blues" di W.H. Auden. In quel momento, il film smette di scherzare. La poesia di Auden, con la sua disperazione cosmica e intima ("Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono..."), eleva il dolore privato a una dimensione universale. La scelta di affidare questo momento a una coppia omosessuale, rappresentata con una normalità e una dignità rivoluzionarie per una commedia mainstream del 1994, non fu un semplice gesto di inclusività. Fu una dichiarazione potente: il dolore e l'amore sono identici, a prescindere da chi li prova. Questa scena è la tesi del film: dietro i riti, i sorrisi forzati e le convenzioni sociali, c'è la materia cruda, fragile e meravigliosa della vita umana.

Inserito nel suo contesto, il film è un documento fondamentale dell'era della "Cool Britannia". Prodotto con un budget modesto, divenne un fenomeno globale inaspettato, esportando un'immagine della Gran Bretagna che non era più quella grigia e conflittuale del Thatcherismo, ma un luogo di fascino eccentrico, intelligenza arguta e romanticismo agrodolce. Ha creato un modello, il "Curtis-touch", che avrebbe influenzato la commedia romantica per i successivi vent'anni, da Notting Hill a Love Actually. La sua colonna sonora, dominata dalla cover di "Love Is All Around" dei Wet Wet Wet, divenne l'inno non ufficiale di un'intera estate, tappezzando l'etere con una patina di ottimismo che sembrava presagire l'imminente ascesa del New Labour di Tony Blair.

Eppure, a rivederlo oggi, il film rivela una malinconia sotterranea che forse all'epoca era meno evidente. È un film sulla paura del tempo che passa, sulla consapevolezza che ogni matrimonio a cui partecipiamo è un passo in più verso i funerali, nostri e altrui. La corsa finale di Charles sotto la pioggia per dichiarare il suo non-impegno ("Potrebbe essere che io ti abbia amato per tutto questo tempo?") non è il classico gesto da eroe romantico. È l'atto di resa di un uomo terrorizzato, che sceglie di abbracciare l'incertezza piuttosto che continuare a fuggire. La celebre dichiarazione finale ("È questa la tua risposta? 'Sì'? Magnifico!") e la proposta di non-matrimonio sono il trionfo dell'anti-retorica, la celebrazione di un amore imperfetto, balbettato, ma proprio per questo autentico.

In definitiva, Quattro matrimoni e un funerale si guadagna il suo posto nel canone non come capostipite di un genere, ma come suo decostruttore mascherato. Ha usato il linguaggio rassicurante della commedia romantica per contrabbandare verità scomode sulla vulnerabilità, sulla perdita e sulla bellezza caotica di legarsi a qualcuno nonostante la terrificante prospettiva che tutto, prima o poi, finisca. È un saggio cinematografico sulla forma e la sostanza delle nostre vite emotive, un'opera la cui leggerezza non è mai superficialità, ma la grazia suprema di chi sa raccontare le cose più serie con un sorriso.

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