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Quel pomeriggio di un giorno da cani

1975

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Lumet, sempre interessato a circumnavigare l’emisfero mediatico e le sue implicazioni sociologiche, spinge la sua analisi nella cronaca nera e partendo da un articolo su un quotidiano costruisce un’opera frenetica, dalla narrazione perfettamente congegnata. La sua acuta capacità di scandagliare le istituzioni e le dinamiche di potere, già manifesta in capolavori come Serpico o Quinto potere, trova qui una nuova e perturbante declinazione, ancorata a un realismo quasi documentaristico che attinge direttamente dalla più cruda attualità. Il regista, con il suo affinato senso del dramma e della tensione, eredità della sua lunga esperienza nel teatro e nella televisione dal vivo, orchestra ogni singolo fotogramma con una precisione chirurgica.

La storia è interamente basata su una rapina in banca finita male, con i rapinatori che assediati dalla polizia prendono in ostaggio i dipendenti della filiale e si barricano all’interno dell’edificio. Quella che dovrebbe essere una semplice operazione criminale si trasforma in un assedio surreale, una performance involontaria che si snoda sotto gli occhi di una New York in tumulto, metafora stessa di un'America in bilico tra la disillusione post-Vietnam e l'incipiente cinismo dell'era Watergate.

Gradualmente la vicenda verrà masticata dal grande carrozzone dei media che la trasformerà in una surreale sarabanda di ipocrisia. Lumet non si limita a osservare, ma disseziona impietosamente la nascita del circo mediatico, un fenomeno che stava prendendo piede prepotentemente negli anni '70 e che il regista aveva già prefigurato con la sua spietata satira in Quinto potere (Network), seppur con un tono più marcatamente farsesco. Qui, la tragedia personale e l'evento di cronaca vengono cannibalizzati, trasformati in un intrattenimento voyeuristico per la folla assiepata e per i milioni di spettatori sintonizzati, ansiosi di consumare il dramma altrui come fosse l'ultimo episodio di una soap opera. Il pubblico, initially curioso, si trasforma in un coro greco strillone e volubile, esultando o fischiando in base all'umore del momento, in un'esemplare dimostrazione del labile confine tra informazione e spettacolo.

Interessante è l’esperimento di imperniare il tessuto narrativo in un’unica ambientazione con forte sapore teatrale. La banca diviene un palcoscenico angusto e claustrofobico, dove i personaggi sono costretti a recitare il proprio ruolo in una commedia dell'arte contemporanea, sotto i riflettori di elicotteri e telecamere. Questo espediente, reminiscenza del suo illustre La parola ai giurati, consente a Lumet di concentrare l'attenzione non tanto sull'azione esterna, quanto sulla psicologia dei personaggi e sulle loro interazioni. L'assedio fisico si traduce in un assedio psicologico, in cui ogni scambio, ogni battuta, acquista un peso specifico inaudito.

Una volta chiaro che i due rapinatori non possono scappare viene a crearsi un microcosmo che è tutto quel che serve a Lumet per raccontare la sua storia: le interrelazioni tra banditi e ostaggi, i difficili rapporti con l’esterno, la tensione crescente: tutto è conchiuso in un piccolo nido. Qui si dipanano dinamiche complesse: dalla sindrome di Stoccolma che inizia a velare il rapporto tra Sonny e i suoi "prigionieri", a sottili giochi di potere e inaspettate solidarietà. La banca, da luogo di transazioni economiche, si muta in un crocevia di destini umani, un laboratorio sociale dove le maschere cadono e le vere personalità emergono sotto la pressione insopportabile. Il film si trasforma così da un semplice "crime movie" in un'analisi acuta e stratificata della società, delle sue nevrosi e delle sue reazioni estreme.

Meravigliosa la sequenza iniziale della rapina quando un impacciato Sonny estrae il suo fucile da un pacco e raduna tutti gli impiegati contro il muro mentre uno dei tre rapinatori ha una crisi e li abbandona nel bel mezzo della rapina. Quella che dovrebbe essere una scena di apertura tesa e minacciosa, si rivela immediatamente goffa, imbarazzante, venata di un umorismo nero che anticipa il caos e l'assurdità che seguiranno. È un colpo di genio narrativo che disinnesca da subito le aspettative del genere, presentando i protagonisti non come duri criminali, ma come patetici dilettanti, quasi dei clown tragici. L'espressione di sbigottimento di Al Pacino in quel momento è un compendio di vulnerabilità e disperazione, che ci immerge immediatamente nella psicologia frammentata del suo personaggio.

Il grande lavoro di Pacino nel cesellare il protagonista compie il resto dell’opera e fa di questo film un imprescindibile punto fermo nel filone crime movie serrandolo a doppio filo con il filone della critica allo strapotere dei media. La sua interpretazione di Sonny Wortzik è una gemma di intensità e complessità: un uomo disperato, vulnerabile, a tratti buffo e a tratti rabbioso, le cui motivazioni sono, sorprendentemente, di natura sentimentale e persino progressista per l'epoca (raccogliere fondi per l'intervento chirurgico di riassegnazione di genere del suo partner). Pacino, al culmine della sua carriera anni '70, regala un personaggio stratificato, un antieroe che suscita insieme pietà e una bizzarra ammirazione, trasformandosi da rapinatore improvvisato a improbabile eroe popolare, acclamato dalla folla che scandisce il suo nome. È proprio grazie a Sonny che il film trascende il mero genere, trasformandosi in una disamina acuta sulla crisi d'identità, sulla disillusione del sogno americano e sulla ricerca di accettazione in un mondo che sembra incapace di accogliere le diversità. Il suo è un grido di dolore e di sfida che risuona ancora oggi con forza perturbante.

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