Quella Sporca Dozzina
1967
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Regista
Robert Aldrich, maestro di un cinema muscolare e implacabile, capace di scrutare l'anima più recondita dell'America, ci cala in questo epico racconto bellico. Non è solo la narrazione di un conflitto armato, ma un'indagine tagliente sui concetti di onore, coraggio e riscatto, qui scomposti e riassemblati attraverso una lente cinica e disincantata, tipica della sua filmografia.
La storia, immersa nel cruciale 1944, è la quintessenza del "men on a mission", genere che Aldrich stesso aveva già esplorato e che qui eleva a paradigma: dodici criminali, reietti e violenti, a cui viene proposta l'unica via per redimere la propria pena detentiva e, forse, le proprie anime macchiate. La missione, una vera e propria condanna a morte travestita da opportunità: penetrare nel cuore della Germania nazista per far saltare un centro di comando nemico, una fortezza tanto inespugnabile quanto moralmente ambigua nel suo scopo ultimo.
A comandarli, una figura archetipica del cinema aldrichiano: il maggiore Reisman, interpretato da un monumentale Lee Marvin, con la sua gravitas ruvida e il suo sguardo disilluso, incarna l'uomo di valore che è al contempo un outsider, da sempre insofferente alle imposizioni dall’alto, alle logiche burocratiche e all'ipocrisia dei vertici militari. La sua leadership non è di stampo classico, ma un delicato equilibrio tra coercizione e comprensione, un patto faustiano siglato con uomini che non hanno nulla da perdere.
Il film acquisisce la sua immensa rilevanza e il suo status di classico intramontabile per merito di una sceneggiatura sapiente, frutto del lavoro di Nunnally Johnson e Lukas Heller, che non si limita a delineare la superficie, ma scava in profondità nel profilo psicologico di ogni "eroe" – se così si possono definire – coinvolto nella storia. Dal meticoloso e anarchico John Cassavetes al gigione e spietato Telly Savalas, dall'indomito Jim Brown al taciturno Charles Bronson, fino al bizzarro Donald Sutherland, ogni membro di questa "sporca dozzina" è un universo di cicatrici e velleità, un microcosmo di ribellione e disillusione. La narrazione procede senza cadute di tono, anzi, si sviluppa con una progressione inesorabile, quasi un crescendo febbrile che lega ogni evento al precedente con una logica stringente, mantenendo sempre alta la tensione e lo svolgersi vertiginoso degli eventi. È un balletto macabro di violenza e umorismo nero, un'ode perversa all'efficienza distruttiva, che risuonava prepotentemente negli anni '60, un decennio in cui l'innocenza bellica lasciava il posto a una critica sempre più acuta e disincantata della guerra.
Tantissime le scene memorabili, autentici schegge di cinema puro che si imprimono nella memoria dello spettatore. Dalla rivolta per l’acqua calda al campo di addestramento capeggiata dal carismatico Cassavetes, momento di ribellione anarchica che svela la natura indomita di questi uomini, all'assalto al Castello nazista, un'operazione militare coreografata con brutale precisione. Qui Aldrich non lesina sulla violenza, né sulla disumanizzazione della guerra: il commando che, una volta resosi conto che i nazisti sono tutti riparati in un bunker, lo fa saltare gettando delle granate nelle prese d’aria, non è solo una scena d'azione mozzafiato, ma un commento tagliente sulla guerra moderna, dove la distanza annulla l'umanità del nemico. È un'immagine che prefigura la fredda efficienza delle stragi compiute con un click, un presagio inquietante del futuro dei conflitti armati.
Il film, uscito nel 1967, si inserisce perfettamente in quel filone del cinema bellico che, sull'onda del crescente dissenso verso la guerra del Vietnam, iniziava a smantellare l'epica glorificante dei conflitti passati, proponendo una visione più cruda, ambigua e spesso nichilista. Sebbene ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, "Quella Sporca Dozzina" è intriso di un'inquietudine contemporanea, di una critica implicita all'autorità cieca e all'idea che qualsiasi atrocità sia giustificabile in nome della vittoria. Aldrich, che già in "Attack!" (1956) aveva mostrato la sua avversione per gli ufficiali incompetenti e le gerarchie corrotte, qui eleva il concetto di 'missione suicida' a parabola morale, interrogandosi sul significato di redenzione per uomini che non cercano perdono, ma solo una via d'uscita dal braccio della morte, o forse, un senso ultimo alla loro stessa esistenza reietta.
Il cast, un'autentica parata di stelle maschili del periodo – da Telly Savalas, che qui crea il suo personaggio più iconico pre-Kojak, a Donald Sutherland, in una delle sue prime grandi performance che ne avrebbero cementato lo status di attore eclettico e magnetico, fino al solido e stoico Bronson e al ribelle Cassavetes – è orchestrato con maestria, creando un'alchimia unica tra individualità estreme. Non sono eroi in senso classico, ma archetipi di un'America irrequieta, uomini che la società ha scartato e che ora la stessa società si ritrova a dover impiegare per i suoi scopi più biechi e pragmatici. La loro è una redenzione paradossale, compiuta attraverso atti di violenza e disobbedienza, un contrappunto amaro all'idea romantica del soldato valoroso, un'esplorazione della moralità grigia che si annida nei recessi più oscuri della guerra.
L'influenza di "Quella Sporca Dozzina" è stata immensa. Ha ridefinito il genere del film di guerra e dell'azione di squadra, diventando un modello per innumerevoli pellicole successive, da "Dove Osano le Aquile" di Brian G. Hutton all'ironia nichilista di "Bastardi Senza Gloria" di Quentin Tarantino, che ne riprende l'idea di una squadra di specialisti dediti a sabotare il nemico con metodi non convenzionali. Il suo ritmo serrato, la sua violenza esplicita ma mai gratuita (nel contesto del messaggio di denuncia e disillusione), e la sua capacità di generare empatia per personaggi moralmente compromessi, ne hanno fatto un caposaldo imprescindibile. È un film che si muove sul confine sottile tra l'exploitation e il dramma profondo, tra l'azione spettacolare e la riflessione amara sulla condizione umana in tempi di conflitto. Un'opera che, a decenni di distanza, continua a provocare e ad affascinare, dimostrando come un grande narratore possa trasformare una semplice storia di guerra in una disamina universale della natura umana, delle sue contraddizioni e della sua inestinguibile ricerca, per quanto deviata, di un'ultima, sporca, scintilla di riscatto.
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