Quinto Potere
1976
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Regista
Una corrosiva discesa nel cinico mondo dei media e dei diabolici poteri persuasivi che questi mezzi di comunicazione esercitano sull’opinione pubblica. Lumet non si limita a denunciare; egli sezionato con la lucidità di un chirurgo, la spietatezza di un anatomopatologo e la profondità di un filosofo, le arterie e le vene di un sistema malato che, già negli anni Settanta, mostrava i primi, devastanti sintomi di ciò che sarebbe divenuto il nostro presente. Il regista affonda il suo sguardo nel potere della comunicazione e ne mette spietatamente a nudo contraddizioni, disumanità e bassezze morali, rivelando come la ricerca ossessiva del profitto possa corrompere ogni etica, trasformando l'informazione in merce e la verità in spettacolo.
È un’opera profonda e intelligente nel suo saettante sarcasmo, potenziata da una sceneggiatura – premiata con l'Oscar – di Paddy Chayefsky, un vero e proprio tour de force di scrittura che eleva il film ben oltre la semplice satira. Chayefsky, già penna di razza con un passato nel mondo televisivo, infonde in ogni battuta una rabbia contenuta e una visionarietà che rasenta la profezia, anticipando con terrificante precisione l'avvento dell'infotainment, della "reality TV" e di quella post-verità che oggi permea ogni aspetto del discorso pubblico. Il suo copione è un capolavoro di dialoghi affilati, spesso monologhi incandescenti che esplodono con la forza di un sermone apocalittico, un inno funebre alla ragione e alla morale.
Howard Beale è uno speaker televisivo sul punto di essere licenziato dal network UBS. In un ultimo disperato messaggio davanti alle telecamere, l’uomo, sconvolto e in preda a una crisi esistenziale, annuncia in diretta il suo suicidio. È il paradosso iniziale: un gesto di disperazione che, lungi dall'essere ignorato, viene immediatamente capitalizzato. Improvvisamente, Beale diventa un caso nazionale con milioni di persone che divengono suoi discepoli, trasformando l'anormalità in un'attrattiva irresistibile per il pubblico e, di conseguenza, per gli inserzionisti. Beale diviene così una sorta di santone tonitruante contro le ingiustizie della società, contro tutti i torti quotidiani che ogni cittadino deve subire. La sua è la voce del "popolo furioso", che urla dalle finestre del proprio isolamento televisivo il mantra "Sono più che incazzato nero, e non voglio più sopportare tutto questo!". Una sorta di populismo ante-litteram che di questi tempi si presta a molte analogie con i movimenti politici e sociali che cavalcano l'onda del risentimento diffuso, trasformando la rabbia in un innesco emotivo, privo di contenuti reali, eppure incredibilmente efficace.
Naturalmente dietro vi sono i dirigenti televisivi – in particolare la fredda e calcolatrice Diana Christensen (interpretata da una glaciale Faye Dunaway, anch'essa premiata con l'Oscar), incarnazione di una nuova, disumana estetica aziendale – che si servono dell’uomo per far levitare gli indici dell’audience. A loro poco importa del messaggio che questi lancia dai loro teleschermi; ciò che conta è il mero dato numerico, la curva dell'ascolto che impenna, il profitto che si moltiplica. In questa spirale di cinismo, persino la morte in diretta non è un limite, ma una nuova frontiera da esplorare per massimizzare lo share. La disumanizzazione del mezzo si riflette nella disumanizzazione dei personaggi, che si muovono come pedine in una scacchiera dove l'unica regola è la sopravvivenza del più spregiudicato.
Le performance attoriali sono pilastri portanti di questa cattedrale della disillusione. Peter Finch, premiato postumo con l'Oscar, è folgorante e tragicamente autentico nel ruolo di Howard Beale, trasformando il suo personaggio da patetico relitto a profeta involontario, vittima e carnefice di un sistema che lo inghiotte. La sua trasformazione è terrificante, passando dal grido di dolore autentico all'alienazione della star mediatica, fino alla sua tragica e inevitabile fine. Accanto a lui, William Holden offre una prova di malinconica dignità nel ruolo di Max Schumacher, il direttore di vecchia scuola che tenta disperatamente di salvare un barlume di etica giornalistica in un mondo impazzito, rappresentando l'ultima resistenza di un giornalismo che era ancora basato sulla responsabilità e non sull'esaltazione.
Quinto Potere non è soltanto una critica tagliente ai media; è un'analisi quasi sociologica dell'impatto della televisione sulla psiche collettiva e sulla democrazia. Il film è una "dark comedy" che si spinge oltre il semplice umorismo per rivelare le assurdità e le atrocità intrinseche di un sistema che divora i suoi stessi figli. Lumet, maestro nel creare atmosfere claustrofobiche e nel sezionare le istituzioni (come già dimostrato in 12 Angry Men o Serpico), qui applica la sua lente d'ingrandimento al network televisivo, trasformandolo in una gabbia di matti dove la finzione è l'unica realtà accettabile. L'amara ironia di un'epoca che, nell'euforia della sua evoluzione tecnologica, non percepiva ancora la trappola mortale del "villaggio globale" distorto dalla spettacolarizzazione.
Cinico, amaro, spietato: un film che, uscito in un periodo di grande disillusionamento per l'America post-Watergate e post-Vietnam, si inserisce perfettamente nel filone della "New Hollywood" che non aveva paura di scavare nelle ferite della società. Ma la sua importanza trascende il mero contesto storico-geografico. È un monito universale, un'allucinazione lucida che si è fatta purtroppo realtà. Un film che a noi italiani, e a tutti coloro che abitano questa era digitale, insegna a capire dove siamo arrivati e perché, svelando la genesi di un mondo in cui l'informazione è indistinguibile dalla propaganda e l'emozione pura prevale sulla ragione, rendendoci, forse, tutti discepoli di qualche moderno Howard Beale.
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