Toro Scatenato
1980
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Regista
Jake La Motta e la sua parabola sportiva e biografica. Ma Toro Scatenato, nell'epos scorsesiano, è ben più di una mera biografia filmata; è una discesa senza compromessi nelle viscere dell'autodistruzione, un'opera lirica sulla bestialità primordiale che si annida nell'uomo e sulla tormentata ricerca – o la sua dolorosa assenza – di redenzione. Scorsese, cineasta di profonda sensibilità cattolica e tormento interiore, rimane talmente affascinato dalla lettura della biografia di La Motta da percepire in essa l'eco dei propri demoni, le proprie ossessioni sulla mascolinità violenta e la colpa, e da decidere di farne un film, coinvolgendo il fido Paul Schrader, già collaboratore del regista in Taxi Driver, per stenderne la sceneggiatura. L'impronta di Schrader è qui inconfondibile: il ritratto dell'individuo isolato, il maschio Alfa incapace di comunicare se non attraverso la violenza, e il desiderio quasi biblico di auto-punizione che si manifesta attraverso l'annientamento fisico e morale, un tema ricorrente nel suo canone di personaggi diseredati e autodistruttivi.
Gli eventi della vita del campione sono paradigmatici di come le vicende personali possano riflettersi sulle vicende sportive dell’atleta, riverberando sul ring tutte le contraddizioni di un uomo che non conosceva limiti neppure nei propri affetti più cari. La violenza di La Motta non è solo fisica, una forza bruta sprigionata in una danza macabra e controllata tra le corde; è una patologia esistenziale, una rabbia cieca che contamina ogni relazione, ogni barlume di quiete domestica. La gelosia paranoica nei confronti della moglie, l’irascibilità che esplode in accessi di furia incontrollabile, la violenza efferata anche contro i propri familiari – epitomi di un'ossessione che lo divora dall'interno – sono alcuni dei tratti distintivi di un uomo la cui furia si rivolge implacabilmente contro se stesso. Egli è il torero che si infilza da solo, l'incarnazione di un archetipo tragico la cui hybris lo porta inevitabilmente alla caduta. Così, nel momento in cui fu battuto da Sugar Ray Robinson sul ring, perse tutto: titolo mondiale, matrimonio, casa, patrimonio. Questa sconfitta non è un semplice rovescio sportivo; è il culmine di una via crucis personale, il momento catartico (o, più verosimilmente, anti-catartico) in cui l'uomo è costretto a confrontarsi con la propria vacuità, la propria bestialità sfrenata.
Il suo triste declino, che lo vide perdere ogni barlume di grandezza e dignità, scivolando in una squallida esistenza di gestore di locali notturni e intrattenitore per pochi spiccioli, fu in qualche modo attenuato dalle sue esibizioni nei night club italo-americani che lo chiamavano ad intrattenere il pubblico. Queste scene, lungi dall'offrire una vera redenzione, mostrano una sorta di purga laica, un purgatorio in cui il leone ferito è costretto a esibirsi per le briciole, recitando barzellette o rievocando la gloria perduta. La celebre sequenza finale, con La Motta che recita "I coulda been a contender" dal film Fronte del porto, non è una citazione casuale, né un mero omaggio cinefilo; è il lamento di un'opportunità sprecata, il grido di un uomo che ha scambiato il ring della vita con la prigione della sua stessa mente, un'eco del Marlon Brando elia-kazaniano che qui assume i connotati di un fallimento epico del sogno americano.
Un De Niro strepitoso forgia il personaggio con professione maniacale, un vero e proprio modello per chi si vuole dedicare al mestiere della recitazione. La sua trasformazione fisica – il La Motta agile e scolpito degli anni d'oro contrapposto al ventre flaccido e al respiro affannoso del pugile a fine carriera, un mutamento ottenuto con un'ingordigia disciplinata che lo portò a ingrassare di oltre venti chili – è leggendaria, un'impresa che ha ridefinito il concetto di "method acting", ma è la sua capacità di far emergere l'anima putrida eppure patetica di Jake a rendere la performance immortale, un connubio di repulsione e tragica empatia.
Completa il quadro di questo grande film la regia di Scorsese, che trascende il racconto sportivo per dipingere un affresco universale della mascolinità tossica, della violenza come linguaggio distorto e dell'impossibilità di sfuggire al proprio fato. La sua messa in scena è sempre attenta ad ogni impennata emotiva e sempre puntuale nel restituire una storia il più possibile avvincente e aderente alla narrazione. Ma l'aderenza non è mera riproduzione; è una rielaborazione stilistica che eleva la cronaca a mito, un'immersione quasi documentaristica nella brutalità del pugilato e nell'inferno interiore del protagonista. La scelta del bianco e nero, in un'epoca in cui il colore era la norma, non è affatto un vezzo estetico, bensì un atto di profonda coerenza artistica. Essa conferisce al film un'aura atemporale, quasi da cronaca giornalistica d'altri tempi, e al contempo esaspera il dramma interiore, rendendo il sangue sul ring quasi tangibile nel suo contrasto viscerale, e la squallida patina dei club notturni ancora più soffocante. È una pittura di Goya in movimento, dove l'oscurità e la luce si scontrano per rivelare le miserie umane, amplificando la violenza e la solitudine. La fotografia di Michael Chapman è un capolavoro di espressionismo, capace di trasformare ogni sudore, ogni livido, in un dettaglio scultoreo, e ogni ring in un'arena tragica, un palcoscenico per un'esistenza senza requie. Toro Scatenato non è solo un film sulla boxe, ma un'opera d'arte sulla condizione umana, sull'animalità che dimora in noi e sulle estreme conseguenze del non saperla domare, un monito viscerale e indimenticabile che ha scolpito il proprio posto nell'Olimpo della cinematografia mondiale.
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