Requiem for a Dream
2000
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Regista
Darren Aronofsky è un regista emergente qui alla sua seconda prova, già autore della notevole opera d’esordio Pi greco – Il teorema del delirio. Con Requiem for a Dream, Aronofsky non solo conferma ma eleva il suo peculiare linguaggio cinematografico, forgiato da una sensibilità quasi matematica per le strutture ossessive e un'inclinazione viscerale per l'esplorazione delle psicosi umane. Se in Pi il delirio era intellettuale, scaturito dalla ricerca di un ordine superiore nel caos numerico, qui esso si manifesta in una discesa ben più terrena e tangibile, una spirale di autodistruzione dettata dalla dipendenza e dalla corrosione del sogno americano.
In questo film sprofonda la sua cinecamera nella melma di una vita sbandata, un’esistenza in cui la droga gioca il suo ruolo primario inquinando ogni altro sentimento. Ma sarebbe riduttivo confinare Requiem for a Dream a un mero cautionary tale antidroga; è, piuttosto, un'allegoria implacabile della dipendenza in ogni sua forma – dalla fame di successo televisivo alla brama di denaro facile, dalla ricerca di accettazione all'illusione di controllo – e del prezzo aberrante che l'individuo paga per inseguire un'effimera felicità o per evadere da una realtà insostenibile. La macchina da presa di Aronofsky agisce come un bisturi chirurgico, incidendo senza pietà la carne viva di personaggi intrappolati in una rete di desideri irrealizzabili e di illusioni autoimposte, trasformando la pellicola in un'esperienza sensoriale tanto disturbante quanto ipnotica.
Un film che scava nel nero portando alla luce frammenti di visioni, flashback impazziti, ricordi incerti e nebbiosi. L'intero impianto visivo è concepito per replicare l'alterazione percettiva indotta dalla dipendenza: dagli iperrealistici primi piani della preparazione e assunzione di sostanze, quasi un rituale ossessivo, alle sequenze "hip-hop montage" – rapide successioni di dettagli frammentati e distorti, accompagnate da un sound design che amplifica ogni tic e ogni sussulto – che catapultano lo spettatore nella soggettività allucinata dei personaggi. Rimane l’impressione di fondo di estrema incertezza e di eterna instabilità sensoriale, un perpetuo stato di alterazione che non concede tregua né allo sguardo né alla psiche. Questa scelta stilistica radicale, mutuata in parte dal cinema sperimentale e dalla video arte, trascende la semplice estetica per diventare una componente narrativa essenziale, un veicolo per veicolare l'inesorabile disgregazione psicofisica.
Il film è diviso in tre parti intitolate: Summer, Fall e Winter. Questa tripartizione stagionale non è un mero espediente strutturale, ma una potente metafora dell'ineluttabile parabola discendente dei protagonisti. L'estate rappresenta la fioritura delle illusioni, un periodo di effimera speranza e prosperità iniziale, quasi un'Eden prima della caduta. L'autunno segna l'inizio della decomposizione, il lento e progressivo sgretolamento delle sicurezze, mentre l'inverno è la desolazione finale, il gelo di una realtà brutale e irreversibile. È un declino che ricorda le strutture di una tragedia greca, dove il fato inesorabile conduce i personaggi al loro catastrofico destino, ma qui la catarsi è assente, sostituita da un nichilismo amaro e disperato.
Nella prima parte vengono introdotti i quattro personaggi principali, Sara, casalinga disperata perduta nel suo sogno di apparire in TV nel suo show preferito, Harry suo figlio, tossicodipendente che vive di espedienti, la sua ragazza Marion e il suo amico Tyrone. La performance di Ellen Burstyn nei panni di Sara Goldfarb è una masterclass di trasformazione fisica e psicologica, un ritratto straziante di una donna che, pur non essendo una "drogata" nel senso comune, diventa schiava della televisione e di una dieta di anfetamine, illudendosi di poter riconquistare una forma giovanile per un'agognata accettazione sociale. Allo stesso modo, Jared Leto (Harry), Jennifer Connelly (Marion) e Marlon Wayans (Tyrone) offrono interpretazioni di rara intensità, incarnando archetipi di gioventù perduta, sogni infranti e scelte disperate.
All’inizio le cose sembrano andare bene: Sara riceve un invito per un provino per il suo show, Harry insieme a Tyrone mette in piedi un giro di spaccio che rende bene. I loro sogni sono tangibili e, per un breve lasso di tempo, sembrano quasi a portata di mano: la notorietà per Sara, il denaro e una vita agiata per Harry e Tyrone, un atelier per Marion dove coltivare le sue aspirazioni artistiche. Ma è una falsa aurora, un'illusione precaria destinata a dissolversi al primo soffio del vento della realtà.
Poi inesorabilmente le cose cominciano a putrefarsi. Sara, nel suo disperato tentativo di dimagrire per un provino televisivo che diventa l'unica ragione di vita, assume delle anfetamine prescritte da un medico senza scrupoli e ne diverrà patologicamente dipendente. La sua escalation è terrificante, trasformandola in una figura scheletrica e allucinata, vittima di un sistema che capitalizza sulla vanità e sulla solitudine. Nel frattempo, la spirale di Harry, Tyrone e Marion si intensifica: Harry deve pagare la cauzione per Tyrone, finito in prigione, sperperando tutti i guadagni accumulati, mentre la ricerca disperata di droga e denaro spinge Marion a prostituirsi, demolendo ogni traccia della sua purezza e delle sue ambizioni. Il film non indora la pillola, mostrando con una crudezza quasi documentaristica le conseguenze fisiche ed emotive della dipendenza, dalle lesioni al braccio di Harry fino alla degradazione morale di Marion, costretta a umiliarsi per pochi spiccioli.
Nel finale del film i quattro vanno incontro al loro tragico destino cedendo, ognuno a modo suo, al vortice dei propri vizi. È un epilogo di una violenza emotiva inaudita, in cui ogni personaggio raggiunge il proprio punto di non ritorno, la propria "morte" simbolica e, in alcuni casi, letterale. Sara finisce in manicomio, lobotomizzata e ridotta a una pianta, la sua mente distrutta dalle allucinazioni e dai farmaci. Harry subisce l'amputazione del braccio, vittima di un'infezione incurabile, perdendo non solo un arto ma ogni residua speranza. Tyrone marcisce in carcere, vittima di abusi e umiliazioni razziali. E Marion, in un'immagine che rimane impressa, è ridotta a una schiava del sesso, venduta e sfruttata, la sua anima completamente annientata. Non c'è redenzione, non c'è catarsi, solo un'implacabile discesa negli abissi della disperazione.
Un’opera notevole sia dal punto di vista dell’esercizio stilistico che da quello della narrazione innovativa, il montaggio di Jay Rabinowitz è frenetico e allucinante ed è uno degli elementi che più colpisce del film. La regia di Aronofsky, coadiuvata dalla magistrale fotografia di Matthew Libatique e dall'iconica colonna sonora di Clint Mansell – la cui "Lux Aeterna" è diventata quasi più celebre del film stesso – crea un'esperienza immersiva e traumatica. Il ritmo serrato, l'uso compulsivo dello split screen per mostrare le azioni simultanee dei personaggi, i primi piani estremi che catturano ogni minima espressione o alterazione corporea, e il sapiente utilizzo del suono per amplificare l'ansia e la paranoia, rendono Requiem for a Dream un vero e proprio pugno nello stomaco. L'editing non è solo un mezzo per raccontare, ma diventa il linguaggio stesso del delirio, un'estensione della mente frantumata dei protagonisti.
Aronofsky sembra interessato all’inesorabile processo di deriva che assumono le vite dei quattro e ne segue con morboso voyeurismo lo sgretolamento. Ma questo "voyeurismo" non è fine a sé stesso; è una lente attraverso cui esaminare la fragilità della psiche umana e la corrosività delle dipendenze, siano esse chimiche, psicologiche o sociali. Il film non giudica, ma mostra, con una brutalità quasi clinicale, le conseguenze ultime di una società ossessionata dal consumo, dal successo facile e dall'evasione. È una danza macabra sulla corda tesa tra sogno e realtà, tra desiderio e autodistruzione, un'opera che ci costringe a confrontarci con il lato più oscuro e vulnerabile della condizione umana.
Un senso di profonda amarezza pervade tutto il film, ed un remoto controcanto di inevitabile sconfitta costella dalla prima all’ultima inquadratura le vicende narrate. Requiem for a Dream non offre vie di fuga, né facili consolazioni. È un'elegia per i sogni infranti, un lamento funebre per le vite spezzate, un ammonimento viscerale sull'abbandono di sé. La sua forza risiede proprio nella sua impietosa onestà, nella sua capacità di evocare un disagio profondo e duraturo, lasciando lo spettatore con un retrogusto amaro ma necessario, la sensazione di aver assistito a qualcosa di più di un semplice film, bensì a un'esperienza catartica e terrificante sull'abisso della condizione umana.
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