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Le Iene

1992

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Il film che ha rivelato al mondo il talento di Quentin Tarantino è un’incredibile fucina di talenti: anzitutto quello di Tarantino nello scrivere e dirigere, quindi un cast sempre all’altezza: dal nevrotico Steve Buscemi all’apprensivo Harvey Keitel, dallo psicopatico Michael Madsen allo stoico Tim Roth. Già in quest'opera prima, che brillò al Sundance Film Festival come un diamante grezzo, emergeva in modo dirompente l'identità autoriale che avrebbe presto ridefinito il cinema contemporaneo. Non si trattava solo di una scrittura brillante o di una regia affilata, ma di una sinfonia perfettamente orchestrata di ossessioni pop, dialoghi che elevano il banale a filosofia e una fascinazione per la violenza come espressione ultima di dinamiche umane. Il cast, poi, è un mosaico di archetipi criminali, ognuno incarnato con una profondità sorprendente: Buscemi, con la sua logorrea ansiosa e la sua ricerca di una logica anche nell'assurdo, Keitel, la cui aura di veterano consumato conferisce un'ambigua autorevolezza e una parvenza di moralità, Madsen, una figura di pura e agghiacciante malvagità, e Roth, il cui tormento interiore si svela gradualmente, rendendolo il nostro tragico punto di vista nell'abisso della cospirazione.

Un film che guizza tra flashback e realtà, con dialoghi e situazioni memorabili, costruito per essere una mystery story con narrazione asincrona che passa agevolmente dal presente al passato senza alcun tipo di forzatura. Questa destrutturazione temporale non è mero virtuosismo stilistico, ma un meccanismo narrativo che amplifica l'incertezza e la paranoia, immergendo lo spettatore in un labirinto di verità frammentate, dove ogni ricordo è una tessera di un puzzle insanguinato. Una tecnica che riflette la natura stessa del crimine, spesso confusa e caotica, e la difficoltà di discernere il vero dal falso quando la fiducia è un lusso che nessuno può permettersi.

Una banda di professionisti si prepara per un colpo ad un negozio di diamanti, qualcosa però durante la rapina andrà storto. Il loro presunto professionismo, tuttavia, si sbriciola fin dai primi minuti, rivelando una fragilità umana e una goffaggine inaspettata che li rende molto più simili a disperati comuni che a impeccabili figure da noir classico, sovvertendo le aspettative e sfumando il confine tra il mito criminale e la cruda realtà.

I banditi che fanno parte del gruppo sono stati scelti da Joe, l’anziano boss locale, senza che questi si conoscessero tra loro. Ognuno di loro assumerà un nome fittizio per non fornire elementi alla polizia in caso di cattura: mr. White, mr. Pink, mr. Orange e così via. Questa scelta di anonimato, pensata per proteggerli, finisce paradossalmente per acuirne l'alienazione e la sfiducia reciproca, ponendo le basi per il dramma claustrofobico che si consumerà nel magazzino. La loro intera identità è ridotta a un colore, un'astrazione che prelude alla disumanizzazione che la violenza e la paranoia porteranno a compimento, trasformandoli da individui in pedine di un gioco mortale.

Il piano presente della narrazione è il ritrovo stabilito dopo la rapina: un vecchio magazzino abbandonato. Uno dopo l’altro i banditi raggiungeranno il rendez-vous stravolti dalla sparatoria da cui sono scampati, qualcuno di loro è ferito. Gradualmente realizzano che in mezzo a loro dev’esserci un infiltrato della polizia, perché il colpo era in realtà una gigantesca trappola con poliziotti appostati ovunque. Comincia così uno spietato confronto tra i criminali per scoprire chi sia il traditore. Questo setting angusto e claustrofobico diventa il crogiolo in cui si fondono e si dissolvono le maschere di onestà e le ultime barlume di professionalità, trasformandosi in una crudele arena psicologica. La ricerca dell'infiltrato non è solo un plot device, ma il catalizzatore di un'implosione morale, un'esplorazione brutale del concetto di lealtà in un mondo senza onore, dove la paranoia è l'unica moneta di scambio.

Interessante l’uso della scansione temporale che anticipa in qualche modo la tecnica usata in Pulp Fiction: l’azione viene suddivisa in flash e sgretolata in decine di rimandi temporali e ricordi personali. Il risultato finale però è del tutto godibile e anzi intriga lo spettatore perché lo chiama in causa in prima persona a ricostruire il narrato. L'abilità di Tarantino nel distorcere la linearità narrativa, ispirata in parte al cinema noir francese di Jean-Pierre Melville, alle dinamiche di fiducia e tradimento del cinema di Hong Kong, come nel caso di City on Fire di Ringo Lam, e forse persino all'ambiguità della verità esplorata in Rashomon di Kurosawa, non è mai fine a sé stessa. Essa serve a costruire un'esperienza di visione attiva, quasi forense, in cui ogni frammento temporale è una prova, ogni dialogo una potenziale rivelazione. Il film, in questo senso, è una sinfonia post-moderna che mescola citazioni cinematografiche, riferimenti musicali e un linguaggio crudo, elevando la cultura pop a strumento di analisi sociale e psicologica.

Una vera e propria lezione di cinema, un’opera forte, densa di impennate violente e di citazioni più o meno colte. Le sue "citazioni colte" sono sprazzi di genialità che conferiscono spessore, trasformando quello che potrebbe essere un semplice heist movie in un'opera stratificata sulla natura della violenza, dell'identità e della lealtà. Ha contribuito a forgiare il mito del cinema indipendente americano degli anni '90, aprendo la strada a una nuova generazione di cineasti con una visione audace e uncompromising.

Decine le sequenze da ricordare, forse la più inquietante è la scena in cui mr. Blonde (Michael Madsen) tortura un poliziotto catturato nella fuga. Il poliziotto è legato ad una sedia, al centro della scena, con del nastro adesivo sulla bocca, immerso in una maschera di sangue. I suoi occhi seguono atterriti mr. Blonde che accende la radio e con un rasoio in mano gli si avvicina danzando. Negli occhi di Mr. Blonde c’è divertimento, sadismo, persino quieta pacatezza: mentre recide un orecchio del poliziotto continua a ballare e sorridere sulle note di “Stuck in the middle with you” degli Stealers Wheel. Questa sequenza è l'epicentro della controversia e del genio del film. Tarantino, con una maestria quasi diabolica, non mostra l'atto brutale in sé, ma la sua eco sonora e visiva, concentrandosi sulla reazione del poliziotto e, soprattutto, sull'inquietante noncuranza di Mr. Blonde. La scelta di accompagnare un tale atto di efferata violenza con una melodia pop allegra non è solo una provocazione estetica; è una dichiarazione sulla banalità del male, sulla capacità umana di disumanizzare l'altro al punto da compiere atrocità con una serenità quasi coreografica. Il ballo di Mr. Blonde, in bilico tra il grottesco e il terrificante, diventa una metafora visiva della sua totale assenza di empatia, un'esibizione di potere che annulla ogni limite morale. È un momento che si imprime a fuoco nella memoria dello spettatore, non per l'esplicita brutalità, quanto per la sua gelida rappresentazione di una psiche criminale disturbata, rendendo Mr. Blonde una delle figure più iconiche e disturbanti dell'intero panorama cinematografico moderno. In questo dettaglio risiede la forza ineludibile di un'opera che ha segnato una cesura, proiettando Tarantino nell'Olimpo dei nuovi maestri e inaugurando un'estetica che avrebbe dominato il decennio successivo.

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