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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Ricatto

1929

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Un Giano Bifronte cinematografico, ecco cos'è Ricatto (Blackmail). Una creatura scissa, con un volto che guarda al passato silente e uno che fissa, terrorizzato ed esaltato, il futuro sonoro. Alfred Hitchcock, nel 1929, non si limita a dirigere il primo "talkie" britannico; plasma un ibrido, un colosso di Rodi con un piede nell'era del muto e l'altro nel nuovo mondo del suono sincronizzato, e in questa spaccata tettonica trova l'essenza stessa del suo cinema futuro. Analizzare Ricatto significa compiere un'autopsia su un momento di transizione, non solo tecnologico ma epistemologico, in cui il cinema ha imparato a parlare e, per questo, ha scoperto nuovi, terrificanti modi di mentire.

La genesi del film è un aneddoto che ogni cinefilo degno di questo nome dovrebbe recitare come un mantra. Girato quasi interamente come film muto, con la produzione che solo in corso d'opera decide di cavalcare l'onda sonora proveniente dall'America, Ricatto diventa il laboratorio di un Mago che deve reinventare i suoi incantesimi in tempo reale. La protagonista, la star cecoslovacca Anny Ondra, con il suo accento dell'est Europa giudicato incomprensibile per il pubblico inglese, diventa l'ostacolo che genera il mostro, o meglio, la soluzione geniale. Hitchcock la fa recitare, mentre fuori campo l'attrice Joan Barry ne doppia le battute in diretta. Questa dissociazione tra corpo e voce, tra l'immagine e la sua emanazione sonora, non è un mero ripiego tecnico: è la tesi del film. È la frattura tra ciò che Alice White (Ondra) fa e ciò che dice, tra la sua esperienza traumatica e la narrazione che ne deve costruire per sopravvivere. Il cinema di Hitchcock nasce qui, in questo scarto, in questo glitch che diventa poetica.

La narrazione stessa è un capolavoro di pre-codice, un tuffo nell'ambiguità morale che Hollywood avrebbe presto bandito. Alice, fidanzata a un detective di Scotland Yard (il flemmatico e un po' ottuso Frank), civetta con un artista bohémien. La sequenza nel suo studio è un saggio di tensione crescente che sembra quasi un'opera letteraria d'inizio Novecento, una novella di Stefan Zweig calata nel fumo di una Londra crepuscolare. L'iniziale gioco di seduzione, con Alice che si prova un abito e l'artista che la ritrae, è carico di un erotismo che muta, quasi impercettibilmente, in minaccia. Il significante chiave, qui, è un quadro che l'artista sta dipingendo: un pagliaccio che ride. Un Arlecchino grottesco, una maschera della commedia dell'arte che funge da testimone silenzioso e beffardo, anticipando il ruolo che avrà alla fine del film. Quando la situazione precipita in un tentato stupro e Alice, per difendersi, afferra un coltello per il pane e colpisce, Hitchcock compie un gesto di pura avanguardia. Nel momento dell'urlo, nella versione sonora, non sentiamo nulla. Un silenzio assordante, un buco nero acustico che risucchia lo spettatore, costringendolo a proiettare il proprio orrore. È il controcanto sonoro della soggettiva espressionista: l'assenza di suono diventa la più potente delle espressioni del trauma.

Da questo momento, il film diventa un'immersione nella psiche frantumata di Alice, un viaggio che ha la stessa disperata lucidità del Raskolnikov di Dostoevskij dopo il delitto. Londra diventa il labirinto della sua colpa. Hitchcock, già maestro dell'uso espressionista dello spazio, trasforma la città in una proiezione della sua angoscia. La celebre insegna al neon di un gin, che si accende e si spegne ritmicamente, non è solo un virtuosismo tecnico; è il martellare della coscienza, un segnale intermittente di peccato ("sin", in inglese) e oblio alcolico. Ma è con l'uso del sonoro che Hitchcock si rivela un demiurgo. La scena della colazione del mattino seguente è, senza esagerazione, uno dei momenti fondativi del cinema moderno. Mentre una vicina pettegola racconta i dettagli dell'omicidio letti sul giornale, la sua voce diventa un ronzio indistinto per Alice, un rumore di fondo in cui una sola parola emerge, ripetuta come un colpo di maglio, affilata come una lama: "coltello... COLTELLO... COLTELLO!". È l'invenzione della soggettiva sonora. Non sentiamo ciò che viene detto, ma ciò che Alice sente. Il mondo esterno si deforma, piegato dalla gravità della sua colpa. È una tecnica che prefigura decenni di cinema, da Polanski a Lynch, e che trova le sue radici più nel flusso di coscienza di Joyce e Virginia Woolf che nel teatro filmato coevo.

La struttura narrativa stessa sembra rispecchiare questa dualità. La prima parte, quasi un documentario, segue la routine di Scotland Yard con una precisione quasi da cinema vérité, mostrandoci l'arresto di un criminale e il processo burocratico della giustizia. Questo prologo funge da contrappunto ironico alla seconda parte, dove la giustizia diventa una faccenda sporca, personale e indicibilmente ambigua. Il fidanzato detective di Alice, Frank, scopre la verità e, invece di arrestarla, diventa suo complice, nascondendo le prove (un guanto, in un'anticipazione quasi profetica di O.J. Simpson) e manipolando l'indagine. Il vero ricattatore, un piccolo delinquente che ha visto Alice uscire dall'appartamento, diventa così la vittima sacrificale, l'agnello nero su cui la coppia proietta la propria colpa per purificarsi.

Questa complessa danza di colpe e segreti culmina in una delle prime, e più grandiose, scene d'azione hitchcockiane: l'inseguimento del ricattatore all'interno del British Museum. La scelta della location non è casuale, è una dichiarazione di poetica. Il dramma sordido e contingente di un ricatto e di un omicidio si svolge tra i simulacri impassibili dell'eternità: sarcofagi egizi, sculture greche, manufatti di civiltà scomparse. È un détournement situazionista ante litteram. Le statue, con i loro occhi di pietra, diventano un pubblico silenzioso e giudicante, rappresentazione di una legge morale (o divina) che sovrasta quella, fallibile e corrotta, degli uomini. La corsa del ricattatore verso la grande cupola della sala di lettura, fino alla sua caduta fatale attraverso il lucernario, è la traiettoria di un uomo schiacciato non solo dalla polizia, ma dal peso della Storia e dell'Arte. Un piccolo uomo la cui morte serve a ristabilire un ordine borghese basato sulla menzogna.

E l'ambiguità non si scioglie, nemmeno nel finale. Frank e Alice, ora legati da un segreto oscuro, sono liberi. Mentre escono da Scotland Yard, Alice si volta e il suo sguardo incrocia il quadro del pagliaccio ridente, ora appeso lì come un trofeo, una prova. Il suo volto è una maschera imperscrutabile. È sollievo? È l'eterna condanna a una vita di finzione? Hitchcock non ce lo dice. Ci lascia con quell'immagine, con quel sorriso dipinto che sembra sapere tutto. Il pagliaccio è l'unico testimone onnisciente, l'incarnazione dell'ironia cosmica, il simbolo di un cinema che non vuole più solo mostrare, ma insinuare; non più solo raccontare, ma interrogare. Ricatto non è semplicemente un film di transizione. È una dichiarazione di guerra alla semplicità, un manifesto che proclama come il suono non porterà al cinema la verità del reale, ma infinite, meravigliose e terrificanti possibilità di manipolarlo. E in quella crepa tra silenzio e parola, tra visto e sentito, tra colpa e apparenza, Alfred Hitchcock ha trovato lo spazio per costruire il suo intero, immortale, regno.

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