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Ricomincio da capo

1993

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La commedia romantica americana, come genere, è una creatura fragile, spesso incline a scivolare nel melenso o nell'inerzia della formula. Eppure, nel 1993, Harold Ramis, un architetto della comicità moderna formatosi alla scuola del National Lampoon e del Saturday Night Live, compì un'operazione di alchimia cinematografica: prese i mattoni di un genere codificato e costruì una cattedrale filosofica, un trattato esistenzialista mascherato da farsa. Ricomincio da capo (titolo originale, Groundhog Day, infinitamente più evocativo) non è semplicemente un film; è un esperimento mentale, un purgatorio in technicolor, un laboratorio comportamentale la cui premessa, tanto semplice quanto geniale, apre abissi di speculazione metafisica.

Il meteorologo televisivo Phil Connors, interpretato da un Bill Murray al vertice del suo potere attoriale, è la perfetta incarnazione dell'uomo postmoderno: cinico, egoriferito, intrappolato in un solipsismo annoiato. È un personaggio degno di un romanzo di Michel Houellebecq, un individuo che ha esaurito ogni forma di stupore e vive la propria esistenza come una serie di fastidiose incombenze. Il suo viaggio annuale a Punxsutawney, Pennsylvania, per il Giorno della Marmotta, è l'apice di questo disprezzo per un mondo che considera kitsch e insignificante. L'universo, o una qualche entità demiurgica beffarda, decide di prenderlo alla lettera. Se la vita è una ripetizione senza senso, allora che sia la ripetizione letterale, eterna, dello stesso, identico, giorno.

La trappola ontologica in cui Phil precipita è un congegno narrativo di precisione svizzera. Il 2 febbraio diventa un microcosmo eterno, una versione personale dell'eterno ritorno di Nietzsche, spogliato però di ogni grandezza superomistica e calato nella banalità di una cittadina di provincia americana. La reazione iniziale di Phil segue un percorso quasi scientifico. Prima la confusione, poi lo sfruttamento edonistico: se non c'è un domani, non ci sono conseguenze. Questa fase è una satira brillante del desiderio umano di onnipotenza. Phil diventa un dio minore, un Loki intrappolato in una simulazione. Usa la sua prescienza per sedurre, per rubare, per schiaffeggiare l'insopportabile Ned Ryerson, in una sequenza di gag che nascondono un'inquietudine crescente. Perché anche l'onnipotenza, se confinata in un perimetro così ristretto, diventa una prigione.

È nella fase successiva che il film trascende completamente il genere. L'edonismo lascia il posto alla disperazione. Ramis e lo sceneggiatore Danny Rubin non temono di spingere il loro protagonista verso l'abisso del nichilismo. Il montaggio dei suicidi di Phil è un momento di cinema straordinario e coraggioso: un'esplorazione della disperazione più nera condotta con i tempi della commedia. Phil si getta da un campanile, si fulmina in una vasca da bagno, si lancia davanti a un camion, solo per risvegliarsi, ogni volta, al suono di "I Got You Babe" di Sonny & Cher. È qui che il film flirta con l'abisso di un Camus catapultato in Pennsylvania, dove il suicidio non è una via di fuga ma solo un altro tasto 'reset' sulla console dell'assurdo. L'universo di Phil Connors è più crudele di quello di Sisifo; a Sisifo è concesso almeno il riposo della notte tra una fatica e l'altra. A Phil, nemmeno quello.

La vera svolta, il cuore pulsante del film, è la lenta, faticosa risalita dall'abisso. Se il tempo non può essere sconfitto, forse può essere riempito. È un'intuizione quasi stoica. Impossibilitato a cambiare il cosa (il giorno è sempre il 2 febbraio), Phil comincia a lavorare sul come. L'apprendimento diventa la sua unica forma di progresso. Impara a suonare il pianoforte, a scolpire il ghiaccio, a parlare francese. In questo, il film diventa una parabola potentissima sul potenziale umano e sulla natura del tempo. Quante volte abbiamo detto "se solo avessi tempo"? Phil ha tutto il tempo del mondo, letteralmente. E scopre che il suo scopo non è riempire il tempo con il piacere, ma riempire sé stesso di conoscenza e, infine, di compassione.

L'arco di trasformazione è completato quando il suo miglioramento personale smette di essere un obiettivo egoistico (conquistare la produttrice Rita, interpretata da una Andie MacDowell che funge da bussola morale, una Beatrice dantesca in abiti anni '90) e diventa un fine in sé. Phil non usa più la sua conoscenza del futuro per il proprio tornaconto, ma per orchestrare una sinfonia di micro-atti di gentilezza. Salva un bambino che cade da un albero, ripara una gomma a terra a delle anziane signore, offre un pasto caldo a un senzatetto. Diventa una sorta di bodhisattva suburbano, un essere illuminato che sceglie volontariamente di rimanere nel ciclo del Samsara (il 2 febbraio) per alleviare la sofferenza altrui. La sua liberazione non avviene quando conquista la ragazza, ma quando diventa l'uomo che è degno di lei, quando il suo amore per lei si espande in un amore universale per l'intera, piccola, imperfetta comunità di Punxsutawney. Il loop si spezza non come ricompensa, ma come conseguenza naturale del suo raggiungimento di uno stato di grazia laico e umanista.

Contestualizzare Ricomincio da capo nel suo tempo, i primi anni '90, è fondamentale. Emerge in un periodo di transizione, dopo la fine della Guerra Fredda, in un'America che sotto la superficie di un'apparente vittoria storica covava un senso di vuoto e di cinismo, perfettamente incarnato da Phil Connors. È l'ultimo rantolo della mentalità yuppie degli anni '80, che il film smantella pezzo per pezzo, suggerendo che la vera ricchezza non è materiale, ma spirituale e relazionale. Bill Murray, la cui persona pubblica e artistica è sempre stata un amalgama di sarcasmo e malinconia, era l'unico attore che potesse rendere credibile un viaggio così estremo. La sua performance è un capolavoro di sfumature: il ghigno sprezzante iniziale si dissolve lentamente in una maschera di disperazione, per poi sbocciare in un sorriso genuino, quasi serafico, nel finale. Le cronache della produzione parlano di un rapporto notoriamente conflittuale tra Murray e Ramis sul set, con l'attore che spingeva per un tono più filosofico e il regista che cercava di mantenere l'equilibrio con la commedia. Questa tensione creativa, paradossalmente, è forse ciò che ha reso il film così perfetto, un equilibrio quasi miracoloso tra farsa e profondità.

La struttura narrativa del film è diventata essa stessa un archetipo, un sottogenere. Da Edge of Tomorrow a Palm Springs, passando per la serie TV Russian Doll, l'influenza di Groundhog Day è incalcolabile. Ma nessuno dei suoi discendenti è riuscito a replicare la sua purezza concettuale e la sua risonanza emotiva. Perché la sua premessa non è solo un pretesto per l'azione o per la commedia, ma è il motore stesso della sua indagine sull'anima umana. È un film che può essere letto attraverso le lenti del buddismo, dell'esistenzialismo, della psicanalisi junghiana o della teologia cristiana, e ognuna di queste letture troverà appigli solidi e coerenti.

Ricomincio da capo è una macchina cinematografica perfetta, un algoritmo karmico che processa un'anima corrotta e la restituisce purificata. È la dimostrazione che una grande opera d'arte non ha bisogno di urlare i suoi temi, ma può sussurrarli attraverso la perfezione della sua struttura e la verità dei suoi personaggi. Ci insegna che l'inferno non è un luogo, ma uno stato della mente, una prospettiva. E che la via per il paradiso non passa per la fuga dal mondo, ma per l'immersione totale e compassionevole in esso. In definitiva, il film non parla di come sopravvivere a un'eternità di giorni uguali, ma di come imparare a vivere un singolo giorno in modo così pieno, così giusto, così perfetto, da renderlo degno di essere ripetuto per sempre.

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