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Rififi

1955

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Una tragedia greca mascherata da polar, un'elegia funebre sulla professionalità, l'amicizia e la fatale, inevitabile ingerenza del caos umano nei piani perfetti: tutto questo è Rififi. Diretto dall'esule americano Jules Dassin, questo capolavoro non si limita a definire le regole del moderno film di rapina; le scolpisce nella pietra, creando un'opera di un rigore e di una purezza tali da renderla un punto di non ritorno per il genere.

Per comprendere la genesi e l'importanza del noir francese, bisogna partire da un paradosso: furono i critici francesi del dopoguerra a coniare il termine "film noir" per descrivere quel ciclo di film americani cupi e disillusi che scoprirono solo dopo la Liberazione. La Francia, quindi, non ha solo importato un genere, lo ha intellettualizzato, gli ha dato un nome e, infine, lo ha rielaborato, creando una variante con un DNA tutto suo. Se il noir americano è spesso un'indagine psicanalitica, intrisa di ansie sessuali e incarnata dalla figura della femme fatale, il polar francese è più esistenziale. Al centro non c'è la passione, ma il mestiere. I suoi protagonisti sono professionisti—criminali, poliziotti—definiti da un codice, da un'etica del lavoro, anche quando quel lavoro è illegale. Il regista che per primo codificò questo approccio fu Jacques Becker con il suo capolavoro stanco e malinconico, Grisbì (1954). Ma fu Dassin, l'anno successivo, a prendere quella malinconia e a innestarvi un meccanismo di suspense di una precisione chirurgica. E dopo di lui, Jean-Pierre Melville avrebbe preso il professionalismo di Dassin e lo avrebbe distillato in un rituale quasi astratto e metafisico. Rififi si colloca esattamente al centro di questa trinità, rappresentando il perfetto equilibrio tra il realismo di Becker e il minimalismo di Melville.

Il contesto produttivo è fondamentale per capire l'anima del film. Jules Dassin era un regista americano di talento, autore di noir solidi come Forza Bruta. Ma cadde vittima della caccia alle streghe del Maccartismo, finì sulla lista nera di Hollywood e fu costretto all'esilio in Europa. Rififi fu il suo primo film in cinque anni, un'occasione quasi disperata per tornare a lavorare. Questa esperienza da esule, da uomo tradito dal proprio sistema, permea ogni fotogramma. Il film è intriso di un senso di stanchezza, di paranoia e di fatalismo che non è solo una convenzione di genere, ma la visione del mondo di un artista che ha perso tutto.

La trama sembra classica: quattro uomini, guidati dal reduce di mezza età Tony le Stéphanois, pianificano un crimine tecnicamente perfetto, una rapina in una prestigiosa gioielleria parigina. Ma l'elemento umano, come sempre, interviene a scombinare i piani. In realtà, il film è diviso in due parti quasi speculari. La prima è un capolavoro di ordine, silenzio e controllo. La seconda, un'esplosione di rumore, caos e violenza. Il titolo stesso, "rififi", è un termine gergale che indica una zuffa, un casino, un guaio. Il film è la cronaca di come un piano perfetto degeneri in un "rififi" mortale.

Il cuore immortale del film, la sequenza che ogni nerd del cinema conosce a memoria e venera, è la rapina. Per quasi trentadue minuti, Dassin ci mostra il colpo in tempo quasi reale, senza una singola parola di dialogo, senza una nota di musica. È un balletto procedurale, una sinfonia di suoni diegetici. Sentiamo solo il respiro affannoso degli uomini, il cigolio di una corda, il rumore sordo del martello che buca il soffitto, il fruscio della polvere che cade, il lontano brontolio della metropolitana. Il silenzio è assordante, e ogni minimo rumore accidentale—una nota di pianoforte dal piano di sopra, un pezzo di intonaco che cade—diventa una detonazione di suspense. Dassin non ci mostra un'azione spettacolare, ci mostra un lavoro. L'attenzione ai dettagli è ossessiva, quasi documentaristica. È un inno alla competenza, alla precisione, all'intelligenza manuale. Questa sequenza ha creato un modello che è stato imitato e omaggiato all'infinito, da Mission: Impossible a Ocean's Eleven, ma mai superato per la sua purezza radicale e la sua insostenibile tensione.

Ma la vera tragedia, in pieno stile noir, non avviene durante la rapina, ma dopo. Il colpo riesce alla perfezione. È il fattore umano a far crollare tutto. La debolezza di uno dei membri della banda, César, che regala un anello rubato alla sua amante, innesca la reazione a catena che porterà alla rovina. La seconda metà del film è una discesa agli inferi, una tragedia greca in cui il fato si manifesta sotto forma di errore umano. Tony le Stéphanois è un eroe tragico in piena regola. È un professionista consumato, un uomo governato da un codice d'onore ferreo. Ma la sua più grande forza, la lealtà verso i suoi uomini, è anche la sua fatale debolezza. Per "riparare" all'errore di César e per proteggere il suo amico e pupillo Jo, è costretto a sporcarsi le mani, a scatenare una violenza che lo porterà alla morte.

Il finale è di un pessimismo nero come la pece. Tony, ferito a morte, riesce a riportare a casa il figlioletto rapito di Jo, per poi accasciarsi sul volante della sua auto, sotto gli occhi del bambino. Il grisbì, il bottino, è perduto o irrilevante. Il sogno di una vita tranquilla è svanito. Ciò che resta è solo una scia di cadaveri e la consapevolezza che, nel mondo descritto da Dassin, non c'è via di fuga. Non dalla polizia, ma da se stessi. Per la sua perfezione formale, per la sua influenza capitale su un intero genere e per la sua desolata ma profonda esplorazione della condizione umana, Rififi non è solo un capolavoro del noir, è un capolavoro del cinema tout court.

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