RoboCop
1987
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Regista
Sotto la corazza di un B-movie ultraviolento, lucidata a specchio con il sangue e l'olio idraulico, pulsa il cuore di una delle satire più feroci e profetiche che gli anni '80 abbiano mai scagliato contro sé stessi. RoboCop di Paul Verhoeven non è semplicemente un film d'azione; è un cavallo di Troia corazzato, un pamphlet filosofico travestito da spettacolo pirotecnico, che contrabbanda un'analisi spietata del tardo capitalismo reaganiano all'interno di un involucro di intrattenimento sfacciatamente fracassone. Guardarlo oggi significa provare un brivido di perturbante preveggenza, riconoscendo i germi della nostra distopia mediatica e corporativa in quella Detroit del prossimo futuro, dipinta con i colori saturi e sfrontati di un fumetto iperrealista.
Verhoeven, intellettuale europeo con un dottorato in matematica e fisica catapultato a Hollywood, affronta la materia con il sadico divertimento di un entomologo che osserva le sue formiche scatenarsi in una guerra insensata. Il suo sguardo non è quello di un americano immerso in quella cultura, ma quello di un outsider acuto, capace di vedere l'assurdità grottesca che si cela dietro la facciata del Sogno Americano. La Detroit del film è la sineddoche perfetta dell'America urbana in crisi: un deserto industriale post-fordista dove i servizi pubblici sono al collasso, pronti per essere fagocitati dalla famelica OCP (Omni Consumer Products), una corporazione il cui nome è già di per sé una dichiarazione d'intenti totalitaria. L'idea di privatizzare le forze dell'ordine, che nel 1987 poteva sembrare una provocazione fantascientifica, oggi risuona con un'eco sinistra nelle discussioni sulla delega di funzioni statali a entità private. L'OCP non vuole solo "ripulire" la città; vuole possederla, raderla al suolo per costruire la sua utopia aziendale, Delta City, un monumento al profitto eretto sulle ceneri della comunità.
La genialità del film risiede nella sua struttura a strati, quasi una matrioska di generi e toni. In superficie, è un western urbano. Alex Murphy è lo sceriffo onesto che arriva in una città senza legge, viene brutalmente ucciso dalla banda del boss locale (il memorabile Clarence Boddicker di Kurtwood Smith, un cattivo di una depravazione quasi comica) e "rinasce" per portare a termine la sua vendetta. Ma sotto questo schema archetipico, si agita un body horror che avrebbe fatto l'invidia di David Cronenberg. La sequenza della morte di Murphy è un capolavoro di violenza quasi insostenibile, un'esplosione di sadismo barocco che non si limita a uccidere il protagonista, ma lo smembra, lo annienta pezzo per pezzo, in una sorta di crocifissione balistica. Verhoeven ci costringe a guardare, a testimoniare la distruzione della carne per poter poi apprezzare la problematica ricostruzione in metallo. Il punto di vista in prima persona della "nascita" di RoboCop, con i tecnici che discutono del suo nuovo corpo come se fosse un'automobile da assemblare, è una delle rappresentazioni più agghiaccianti della spersonalizzazione e della reificazione dell'individuo nell'era tecnologica.
Ed è qui che il film ascende a un piano quasi teologico. Il parallelo cristologico, confermato dallo stesso Verhoeven, è tanto sfacciato quanto efficace. Murphy subisce un martirio pubblico, muore, e risorge dopo un periodo di "limbo" tecnologico come salvatore corazzato di Detroit. La sua prima apparizione, in cui cammina letteralmente sull'acqua (in una fabbrica allagata) per sventare una rapina, è un'iconografia quasi blasfema. È un messia costruito da una corporazione, un redentore programmato con direttive prime, tra cui quella, ironicamente classista, di "proteggere gli innocenti" ma anche "difendere la proprietà privata". Questa ambiguità è il cuore del dramma: RoboCop è un agente del bene o il braccio armato del capitale? La sua lotta non è solo contro i criminali di strada, ma contro i suoi stessi creatori e, soprattutto, contro la programmazione che tenta di sopprimere il "fantasma nella macchina", i frammenti di memoria e umanità di Alex Murphy.
Questa ricerca d'identità lo accomuna ad altri grandi costrutti artificiali della fantascienza, ma con una differenza fondamentale. Se il Roy Batty di Blade Runner anela a "più vita" in una struggente poesia esistenzialista, e il mostro di Mary Shelley cerca disperatamente l'accettazione del suo creatore, RoboCop combatte per recuperare un'umanità che gli è stata strappata via. La sua tragedia è quella di un'anima intrappolata, che riemerge attraverso glitch di memoria, sogni frammentati della sua vita passata, e gesti meccanici che imitano antiche abitudini umane, come far roteare la sua letale pistola Auto-9. Peter Weller, sotto decine di chili di fibra di vetro e plastica (una tortura che, a suo dire, lo aiutò a trovare la giusta rigidità del personaggio), compie un miracolo di performance fisica, comunicando questo conflitto interiore attraverso movimenti minimi e una cadenza vocale piatta che a tratti lascia trapelare l'eco di un uomo perduto.
Ma il vero colpo da maestro, l'elemento che eleva RoboCop da grande film a capolavoro immortale, sono gli intermezzi pubblicitari e i notiziari. Questi segmenti non sono semplici interruzioni comiche, ma il coro greco del film, il commentario satirico che ne esplicita la tesi. Dalla pubblicità della "6000 SUX", un'automobile dalla potenza insensata e dai consumi apocalittici ("An American Tradition!"), al gioco da tavolo per famiglie "Nukem", che trasforma l'olocausto nucleare in un passatempo, Verhoeven e gli sceneggiatori Ed Neumeier e Michael Miner costruiscono un ritratto agghiacciante di una società desensibilizzata, consumista fino al midollo, dove la violenza è intrattenimento e la catastrofe è un prodotto da vendere. I mezzibusti sorridenti del telegiornale che annunciano con la stessa allegria un massacro in Sudafrica e un guasto a una stazione spaziale armata di laser sono la prefigurazione più accurata della nostra attuale infosfera, dove tragedia e farsa convivono nello stesso, ininterrotto flusso di contenuti.
Il design stesso è un trionfo di commento sociale. Il look di RoboCop, ispirato ai manga giapponesi come Uchū Keiji Gavan (Space Sheriff Gavan), è una fusione perfetta tra l'eroe e il prodotto, un'armatura che è al contempo un'uniforme e un marchio. Al suo opposto, il goffo e terrificante ED-209, animato in una magistrale stop-motion da Phil Tippett, è la satira della tecnologia fine a sé stessa, un prodotto del "design by committee" che incarna la brutalità inefficiente e priva di logica del potere corporativo. La sua incapacità di scendere le scale è una delle gag più memorabili e metaforicamente potenti della storia del cinema: il futuro iper-tecnologico e repressivo che inciampa goffamente sugli ostacoli più banali della realtà.
Rivedere RoboCop oggi significa ammirare un'opera che ha vinto la sua battaglia più importante: quella contro il tempo. Se la sua estetica è inconfondibilmente anni '80 – dalle acconciature cotonate all'architettura aziendale spigolosa – i suoi temi sono diventati, se possibile, ancora più urgenti. In un'epoca di giganti della tecnologia che modellano la nostra percezione della realtà, di dibattiti sull'intelligenza artificiale e la sorveglianza, e di una spettacolarizzazione mediatica che ha raggiunto livelli parossistici, il monito di Verhoeven risuona con la potenza di un colpo di Auto-9. È un catechismo punk-metal sull'anima umana che resiste alla sua mercificazione, un'opera la cui intelligenza affilata è pari solo alla sua brutale, catartica, indimenticabile violenza. "Vivo o morto, tu verrai con me" non è solo una battuta a effetto; è l'invito del film a confrontarci con i demoni del nostro presente, che esso aveva già visto con una chiarezza spaventosa.
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