Rocky
1976
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Regista
Un film di redenzione, una catarsi attraverso lo sport, questo che l’accoppiata Avildsen – Stallone concepì e mise in scena a metà degli anni 70. Un’epoca, quella, in cui l’America, provata dal Vietnam, scossa dallo scandalo Watergate e afflitta da un’economia zoppicante, era un paese alla ricerca di un balsamo per l’anima, di una narrativa che restituisse fiducia nell’individuo e nel sogno americano, seppur in una veste meno smagliante e più terrena. In questo contesto di disillusione e necessità di eroi quotidiani, “Rocky” emerse come un faro inaspettato, un’ode alla perseveranza e alla dignità di fronte alle avversità.
Il merito dell’operazione è sicuramente da attribuirsi alla tenacia di Stallone che, avendo scritto soggetto e sceneggiatura anni prima, dovette attendere quasi dieci anni prima che la sua storia potesse essere trasposta sul grande schermo. Una gestazione travagliata, quasi biblica, che alimentò la leggenda di un giovane attore quasi indigente, con un conto in banca esiguo e un cane da sfamare, che rifiutò ripetute offerte per la sua sceneggiatura, determinato a interpretare lui stesso quel pugile sfortunato. Una testardaggine quasi messianica, che rispecchiava in modo speculare la caparbietà del suo personaggio, Rocky Balboa, un "palooka" di periferia, un picchiatore onesto che nessuno avrebbe mai scommesso potesse giungere a tanto. Questo rifiuto di cedere i diritti senza la propria partecipazione non fu solo un atto di audacia professionale, ma un profondo atto di fede nella propria visione, un parallelo tra la battaglia dell’autore e quella del suo eroe.
Un’opera che focalizza la sua indagine sul ritratto di un uomo dei bassifondi di Philadelphia, un immigrato emarginato con problemi economici, che grazie al suo talento sportivo riuscirà ad affrancarsi dalle misere condizioni in cui si trova e a divenire punto di riferimento per la sua comunità. Rocky non è il pugile stereotipato, muscoloso e invincibile; è un personaggio complesso, a tratti patetico, un anti-eroe che incarna la grinta e la fragilità della classe operaia americana degli anni '70. La sua vulnerabilità lo rende più accessibile, più "vero". Non è la perfezione atletica a definirlo, ma la sua inarrestabile, quasi irrazionale, sete di autostima e riconoscimento. La sua storia risuona con la malinconia del neorealismo italiano, pur proiettandosi nel mito americano dell'opportunità, offrendo una visione cruda ma speranzosa di una città e dei suoi abitanti spesso dimenticati.
Tante le scene da ricordare in questo film, dall’estenuante e coinvolgente combattimento per il titolo mondiale dei pesi massimi contro Apollo Creed, agli allenamenti di Rocky con i quarti di bue, ma forse la scena che più ha colpito la platea è stata quella in cui durante una sessione di Jogging Rocky sale come un forsennato i gradini del Philadelphia Art Museum e alzando le braccia al cielo, rivolto alla città, grida con tutta la rabbia che ha in corpo. L'allenamento nella cella frigorifera, con i quarti di bue a fare da sacco, è un'immagine di primordiale brutalità e ingenua determinazione, quasi un rito pagano di iniziazione sportiva. Ma l’ascensione sui gradini del Museo d'Arte di Philadelphia trascende la mera preparazione fisica; è un’epifania, un momento di liberazione spirituale e affermazione. Quell'atto, divenuto un'icona culturale replicata da turisti di ogni dove, simboleggia la capacità dell'individuo di elevarsi al di sopra delle proprie circostanze, un urlo di sfida e vittoria contro le inerzie della vita, una rappresentazione quasi pittorica della volontà di raggiungere l'irraggiungibile.
È chiaro che questo messaggio Stallone lo sta inviando all’industria del Cinema per gridare tutta la sua fierezza per aver finalmente realizzato la sua creatura nonostante tutti i no ricevuti. Il film stesso è una metafora della carriera di Stallone: un outsider che, contro ogni pronostico e nonostante il cinismo del sistema, riesce a imporsi con la forza della sua visione e della sua tenacia. “Rocky” non è solo il trionfo di un personaggio, ma anche quello di un autore che ha creduto nella sua voce, inaugurando una nuova era di “underdog stories” e ridefinendo la figura dell’eroe cinematografico, non più intoccabile e onnipotente, ma imperfetto e umanissimo.
Ma Rocky non è soltanto un’opera con risvolti sociologici, ma anche e soprattutto un grande film di sport, dove la Boxe per la prima volta viene spettacolarizzata con una tecnica registica mai vista prima. Il regista John G. Avildsen, con un budget limitato e tempi stretti, realizzò sequenze di pugilato di una visceralità sorprendente per l'epoca. Grazie ad un uso della cinepresa quasi in presa diretta, con movimenti fluidi e vicinissimi ai volti e ai corpi, i combattimenti di Rocky assumono la drammaticità di un evento titanico dove l’eroe è messo a nudo e la sua lotta diviene la lotta di chi lo guarda. La telecamera, in un’antesignana adozione di tecniche che sarebbero poi diventate comuni (come l'uso pionieristico della Steadicam in alcune sequenze, sebbene non tutte), si muoveva all'interno del ring, non come mero osservatore esterno, ma come parte integrante dell'azione, facendoci sentire ogni pugno, ogni respiro affannoso. Non era più solo uno scontro fisico, ma un duello psicologico, un balletto brutale in cui l'anima dei contendenti si rivelava colpo dopo colpo. Il sound design, con l'amplificazione dei suoni dei guantoni e dei respiri, contribuiva a immergere lo spettatore in un'esperienza sensoriale completa, quasi sinestetica.
Un film in definitiva che ha il pregio di aver inoculato nella Settima Arte la sensazione che lo Sport possa essere vissuto come una cerimonia spettacolare, come una meravigliosa liturgia dove l’uomo sia quasi esortato a travalicare i propri limiti e a trascendere la propria condizione. Il climax non è la vittoria, ma la capacità di Rocky di rimanere in piedi, di combattere fino all'ultimo round, guadagnando non tanto il titolo, quanto il rispetto per sé stesso e l'amore della sua Adrian. Questa è la vera catarsi: la scoperta del proprio valore intrinseco, al di là del risultato immediato. "Rocky" ha elevato il genere sportivo, trasformandolo da mera cronaca di competizioni a indagine profonda sulla tenacia dello spirito umano, sull'importanza della dignità e della resilienza. Il suo impatto culturale è stato immenso e duraturo, cementando il mito dell'underdog e dimostrando che, talvolta, il vero trionfo risiede non nel vincere, ma nel non arrendersi mai.
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