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Nodo alla Gola

1949

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Un esercizio di stile che cambia i canoni del linguaggio cinematografico, un autentico balzo in avanti nella sperimentazione autoriale che ancora oggi risuona con una vertiginosa audacia.

Alfred Hitchcock, il Maestro indiscusso del brivido, riscrive le regole del gioco concependo un’opera girata in presa diretta, o meglio, con l'illusione sapiente di essa, attraverso la feroce osservanza delle tre regole auree di tempo, luogo e spazio aristotelici. Non si tratta di un semplice virtuosismo tecnico fine a sé stesso, ma di una scelta drammaturgica consapevole e profondamente efficace. Il presunto piano sequenza lungo ottanta minuti, reso possibile da ingegnosi tagli nascosti dietro la schiena di un attore o il passaggio di un oggetto scuro, non è un mero espediente per stupire. È il cuore pulsante del film, la ragione della sua inesorabile progressione, un tentativo estremo di ricreare davanti a una cinepresa l’atmosfera e la percezione soffocante di un palcoscenico. In questo modo, Hitchcock non solo rende omaggio all’opera teatrale da cui è tratto il film, un lavoro di Patrick Hamilton del 1929 che il regista fece di tutto per portare sul grande schermo, ma ne amplifica la claustrofobia e la tensione in un modo intrinsecamente cinematografico. L'immersione dello spettatore nel tempo reale del delitto e della sua successiva dissimulazione diventa totale, quasi viscerale.

Al centro di questa agghiacciante sceneggiatura troviamo Brandon Shaw e Phillip Morgan, due compagni di appartamento (la cui omosessualità nel film è solo accennata e rimane in filigrana per tutta la narrazione, un sottotesto audace e pericoloso per l'epoca del Codice Hays, ma chiaramente percepibile nella loro dinamica di co-dipendenza e manipolazione) che commettono un omicidio per quelli che definiscono "futili motivi". La vittima, l'incolpevole David Kentley, viene strangolata con una corda da cucina e poi nascosta in un baule antico, che diventa immediatamente il perno macabro della messa in scena. Su questo stesso baule, in un atto di suprema, glaciale arroganza, i due ragazzi allestiscono un banchetto per un ricevimento che si deve tenere di lì a poco. Un vero e proprio altare sacrificale alla loro pretesa superiorità intellettuale.

Tra gli invitati, una galleria di personaggi ignari che ruotano attorno al segreto inconfessabile, c’è il padre della vittima e, soprattutto, un professore di lettere, Rupert Cadell, interpretato da un magnifico James Stewart. Cadell è celebre per le sue ciniche teorie sull’umanità, le sue regole sociali ipocrite e l'idea che l'omicidio possa essere giustificato come forma d'arte o espressione di una mente superiore, teorie che ha seminato tra i suoi studenti, e che in Brandon e Phillip hanno trovato terreno fertile per germogliare in una mostruosa distorsione. La tensione si costruisce non sul "chi è stato" – la cui risposta è nota sin dall'inizio – ma sul "scopriranno la verità?".

I due assassini reagiscono diversamente alla situazione, offrendo un magnifico studio sulla psicologia della colpa. Brandon, algido, luciferino e dotato di un perverso umorismo, gioca con il delitto commesso, ostentando una superiorità intellettuale quasi nietzschiana, convinto di essere un "superuomo" al di là della morale comune. È eccitato dalla presenza del corpo nascosto nel baule, un trofeo da esibire mentre gli invitati vi ciarlano intorno, ignari della sua macabra rivelazione imminente. Philip, invece, più timido, introverso e fragile, è sul punto di cedere, i suoi nervi sono messi a dura prova durante il party da allusioni più o meno velate che giungono dal fluire dei discorsi. È il contrappunto emotivo di Brandon, la sua coscienza barcollante, il lato umano che si ribella all'orrore. La loro dinamica è un duetto perverso, una danza mortale tra controllo e dissoluzione.

Il finale sarà un vortice dialettico, un vero e proprio scontro di intelletti e di coscienze, in cui i due assassini precipitano inesorabilmente finendo con il vedere miseramente sgretolato il loro muro di menzogne dinanzi alla razionalità devastatrice e, paradossalmente, auto-accusatoria di Cadell. È Cadell stesso a realizzare di essere stato, con le sue teorie estreme e provocatorie, il catalizzatore di questa tragedia, il "pigmalione" involontario del male. Il confronto finale, più che un interrogatorio, è un dibattito filosofico che svela l'abisso tra la teoria e la mostruosa realtà delle sue conseguenze. Questa dinamica trova un'eco inquietante nel celebre caso Leopold e Loeb del 1924, due brillanti studenti di Chicago che uccisero un ragazzo per puro piacere intellettuale, convinti della loro superiorità e impunità. Un caso che senza dubbio influenzò la pièce di Hamilton e, di riflesso, il film di Hitchcock, aggiungendo uno strato di realismo agghiacciante alla vicenda.

Un film di una bellezza inaudita, in cui Hitchcock spinge all’estremo la sua Arte registica per raggiungere una dimensione che altri cineasti hanno solo disperatamente intravisto: la scarnificazione di una coscienza umana tramite il potere dialettico della parola. Un’opera che fluisce potente e inarrestabile in una presa diretta che da l’impressione di essere seduti in una poltrona di teatro, non solo come spettatori, ma quasi come complici silenti. La sensazione di percepire il potere del Logos in questo film è opprimente e seducente, la parola non è solo veicolo di comunicazione, ma strumento di accusa, di rivelazione, di tortura psicologica. E in questo balletto intellettuale, nulla ha più importanza per lo spettatore di quel maledetto baule e del suo silenzioso segreto occultato, un muto ma assordante monito alla pericolosa arroganza dell'intelletto umano quando si disconnette dall'empatia e dalla morale. "Nodo alla Gola" rimane una lezione magistrale di suspense e psicologia, un'opera che, pur nella sua singolarità formale, incarna perfettamente le ossessioni e il genio del suo autore.

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