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Rosencrantz e Guildenstern sono morti

1990

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Una visione laterale, obliqua, tagliente di Shakespeare. È un prisma inatteso, una rifrazione che deforma e al contempo rivela verità più profonde sulla condizione umana e sull'arte stessa.

Ecco quel che ci offre il geniale Tom Stoppard in questo film, dove pone il suo occhio indagatore addosso a due personaggi comprimari dell’Amleto e li fa danzare attraverso la poetica di un intero secolo. Non si tratta di una mera riscrittura, ma di un'operazione ermeneutica audace che filtra la tragedia shakespeariana attraverso le lenti dell'assurdismo beckettiano, del nichilismo esistenzialista e di un postmodernismo ludico. I due "bravi ragazzi" di Wittenberg, trasformati da Stoppard in archetipi dell'ignaro e del disorientato, diventano veicoli per un'esplorazione caleidoscopica della natura della realtà, dell'identità e della libertà, rispecchiando le ansie intellettuali del Novecento. È la poetica della dislocazione, dell'essere gettati in un mondo privo di senso predeterminato, un tema caro a pensatori come Camus e Sartre, qui declinato con una leggerezza apparente che cela abissi filosofici.

Da osservare con attenzione per i continui rimandi al testo originale, ripreso da diverse angolazioni, come un canovaccio da seguire e a cui ispirarsi, ma comunque oniricamente avulso dalla storia raccontata. Stoppard gioca con la diegesi di Shakespeare, mostrandoci frammenti del dramma principale come apparizioni fantasmatiche, eventi di cui Rosencrantz e Guildenstern sono tangenzialmente consapevoli, ma mai pienamente partecipi o comprendenti. È una magistrale lezione di intertestualità, dove il "dietro le quinte" diventa il palcoscenico principale, e la tragedia di Elsinore si manifesta come un rumore di fondo incomprensibile, un destino che si compie altrove, ma che inesorabilmente li risucchia. Il loro non essere al centro dell'azione, pur essendone funzionali, li rende perfette maschere per l'uomo contemporaneo, spettatore passivo di una storia troppo grande per lui.

Interessante è anche l’operazione di costruzione ex-novo di due identità partendo da due personaggi comprimari della vicenda scespiriana e farli assurgere a bislacchi protagonisti di un mondo possibile ma improbabile. Rosencrantz e Guildenstern non sono solo figure da commedia, ma incarnazioni di dilemmi ontologici. Chi sono al di fuori della loro funzione shakespeariana? La loro stessa esistenza è definita unicamente dalla loro relazione con Amleto, dalla loro designazione come "quelli che non sono Amleto". Questa ricerca di un'identità autonoma, ostacolata dalla loro stessa predeterminazione letteraria, è il cuore pulsante del dramma comico. Sono condannati a essere i “compagni di scuola”, le pedine, e la loro ribellione, puramente dialettica e intellettuale, è sempre destinata al fallimento.

Una sorta di spin-off dell’Amleto, per dirla in termini moderni, ma in realtà una sofisticata metanarrazione che decostruisce non solo il dramma shakespeariano, ma la natura stessa della finzione e della realtà. Stoppard non si limita a riutilizzare personaggi; li svuota e li riempie di nuove angosce, li pone di fronte a domande senza risposta sulla loro ragione d'essere, sull'ineluttabilità del fato scritto per loro.

Emozionante l’andamento retorico dei dialoghi e l’ispirazione teatrale nel dualismo verbale dei due contendenti, quasi una sfida tra due consumati sofisti. La lingua è il vero campo di battaglia, l'arena dove si combattono duelli intellettuali di straordinaria brillantezza. Il botta e risposta è rapido, spesso circolare, intriso di logica paradossale, di giochi di parole che rivelano e nascondono al tempo stesso. Si percepisce l'influenza del "teatro dell'assurdo" di Beckett, in particolare di "Aspettando Godot", non solo per la dinamica del duo che attende un senso o un'azione, ma anche per l'uso del linguaggio come strumento di esplorazione filosofica e al contempo come barriera invalicabile tra gli individui e la comprensione del mondo. La comicità scaturisce dalla disperazione di chi cerca di imporre un ordine razionale a un universo che si ostina a sfuggire a ogni categorizzazione.

Originale ed emozionante nei suoi ampollosi non-sense, nei suoi collassi semantici, nei suoi rimpalli dialogici. Questi "collapsi" non sono casuali; sono la testimonianza della fragilità del linguaggio come strumento di verità, del suo fallimento nel catturare la complessità della realtà. I personaggi si perdono nei meandri della logica, nelle circonvoluzioni verbali, trasformando l'eloquio in una gabbia dalla quale non riescono a evadere, intrappolati nelle loro stesse argomentazioni.

Memorabile la scena in cui Rosencrantz trova una moneta lungo la strada e continua a lanciarla ottenendo sempre testa, tra l’incredulità di Guildenstern: la probabilità non esiste, è solo un mero attributo fisico, la sequenzialità è il fantasma che avvolge il mondo e lo divora. Questa sequenza è il nucleo filosofico del film, un momento di pura vertigine metafisica. La violazione sistematica delle leggi della probabilità non è un semplice trucco da prestigiatore; è la messa in scena visiva dell'idea che i due personaggi siano prigionieri di un destino preordinato, che le loro vite non siano frutto di libero arbitrio ma di un copione già scritto. È una potente metafora del determinismo, della sensazione di essere marionette in un dramma altrui, dove persino le leggi fondamentali dell'universo si piegano al volere di un autore invisibile. L'ansia di Guildenstern di fronte a questa anomalia statistica è la nostra stessa ansia di fronte a un mondo che ci sfugge, che non risponde alle nostre aspettative razionali. È l'incubo di chi scopre che persino il caso è un'illusione, e che ogni lancio di moneta è già deciso.

Tom Stoppard, uomo di teatro prestato al cinema, crea un’opera originale e fresca con cui rendere omaggio al Maestro di ogni drammaturgo, ma anche con cui riaffermare il proprio genio. La sua transizione dalla scena allo schermo, qui come regista oltre che sceneggiatore, è esemplare. Sebbene il film mantenga un'impronta teatrale, Stoppard sfrutta al meglio il linguaggio cinematografico: la fluidità delle inquadrature, la potenza evocativa dei costumi e delle scenografie che richiamano la pittura fiamminga, l'uso del montaggio per accelerare il ritmo comico o per sospendere il tempo nell'attesa. Il cast, con un Gary Oldman e un Tim Roth strabilianti nei ruoli e un Richard Dreyfuss gigionesco nei panni del Capocomico, eleva ulteriormente la materia. Oldman cattura la frustrazione intellettuale e l'agonia esistenziale di Guildenstern, mentre Roth incarna la beata incoscienza e la semplicità quasi infantile di Rosencrantz. La loro chimica è il carburante che alimenta l'intero meccanismo narrativo. Il film non è solo un brillante esercizio stilistico o un omaggio accademico; è una profonda riflessione sulla vita, la morte, il significato dell'essere e il nostro posto nell'immenso, incomprensibile, a volte comico, a volte tragico, dramma dell'esistenza.

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