Salaam Bombay!
1988
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Regista
Autentica perla del cinema indiano, insignita di un prestigioso riconoscimento a Cannes – la Caméra d’Or per la migliore opera prima – e nominata all’Oscar, Salaam Bombay! ha avuto anche il merito di essere stata la prima pellicola indiana ad essere distribuita con successo nelle sale italiane, un traguardo non da poco per un’industria cinematografica che, a suo tempo, stentò a trovare accoglienza nonostante il genio di maestri come Satyajit Ray. Laddove il neorealismo di Ray, pur sublime nella sua intima poesia, rimaneva forse un territorio esotico per il grande pubblico occidentale, l’opera di Mira Nair irruppe con una forza primordiale e universale, scavalcando barriere culturali e linguistiche.
La regista Mira Nair, con un’audacia che tradisce la sua formazione di documentarista, spinge l’occhio della sua cinepresa nei bassifondi più reconditi dell’umanità, là dove emarginazione e miseria, come una bruma perenne, offuscano ogni possibile via di fuga. L’approccio quasi etnografico, la scelta di lavorare con molti attori non professionisti, inclusi autentici bambini di strada reclutati e preparati attraverso laboratori intensivi, conferisce al film un’autenticità quasi dolorosa, trasformandolo in un documento straziante e autenticamente vivo e palpitante. Non è una mera rappresentazione, ma un’immersione cruda e senza filtri in un purgatorio esistenziale, restituito con una veridicità tale da far vacillare i confini tra finzione e cronaca.
La narrazione prende l’avvio dall’abbandono del piccolo Krishna, di soli 10 anni, da parte di sua madre e del circo per il quale lavorava. La causa è una bicicletta che il piccolo ha distrutto e che, per una somma simbolica ma irraggiungibile, deve rifondere per poter riaggregarsi alla carovana circense. Krishna, il cui volto innocente e gli occhi vigili divengono la nostra lente privilegiata su questo inferno urbano, tenterà di racimolare le 500 rupie necessarie vivendo di espedienti a Bombay, una metropoli pantagruelica, tentacolare e infida ai suoi occhi ancora puri. La cifra, apparentemente modesta, si configura come un Sisifo moderno, una chimera che lo incatena alla strada, spingendolo a confrontarsi con una realtà ben più spietata di qualsiasi arena circense.
Il bambino dovrà calarsi in un sottobosco popolato da figure archetipiche di quella che si potrebbe definire una stratificazione sociale invisibile: prostitute giovanissime come la toccante Manju, dal cui sguardo filtrano barlumi di un’infanzia rubata; criminali di mezza tacca e spacciatori come Chillum, il tossicodipendente che diviene per Krishna una figura paterna ambivalente, guida e monito vivente; mendicanti e senzatetto che si arrangiano con la ferocia dei reietti. Ognuno di questi personaggi, lungi dall’essere una semplice macchietta, è un ritratto a tutto tondo della disperazione e della resilienza, rivelando come, anche nel cuore della miseria più abietta, possano fiorire legami inaspettati, seppur effimeri e destinati spesso alla tragedia. La macchina da presa di Nair non giudica, ma osserva con una pietas laica e penetrante, catturando la complessità morale di esistenze al margine.
Un’opera il cui interesse è prima di tutto sociologico, poi certamente estetico. Mira Nair non si limita a mostrarci la miseria, ma ne indaga le radici e le conseguenze con una precisione quasi scientifica, esponendo il sistema di sfruttamento minorile, la piaga della tossicodipendenza e della prostituzione, l'indifferenza delle istituzioni. Bombay stessa emerge non solo come sfondo, ma come un organismo vivente e pulsante, una selva d'asfalto dove il caos sensoriale è palpabile: il frastuono dei treni, il clacson incessante delle auto, le voci del mercato, il rumore dei risciò che si fondono in una sinfonia assordante. Questa saturazione sonora, unita a una fotografia che esalta i contrasti tra le luci sporche della città e le ombre della povertà, crea un’esperienza immersiva che si imprime nella memoria dello spettatore.
Mira Nair offre un modo nuovo e coraggioso di guardare il proprio Paese, senza rifuggirne le contraddizioni più laceranti, ma anzi riverberandole con una forza sismica nello sguardo di un bambino che va incontro alla dura battaglia della sopravvivenza. Il film, pur nella sua specificità geografica e culturale, si eleva a metafora universale della lotta per la dignità in un mondo che spesso nega persino l’esistenza ai suoi abitanti più fragili. Salaam Bombay! è un grido che risuona ben oltre le strade caotiche di Mumbai, un monito potente sulla condizione umana e sull’eterna scintilla di speranza che, pur flebile, continua ad ardere anche nelle tenebre più fitte. Il suo lascito è quello di aver aperto una finestra sull'India contemporanea, andando oltre gli stereotipi, e di aver segnato una pietra miliare per il cinema indipendente globale.
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