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Salvador

1986

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Un Oliver Stone ad inizio carriera firma quello che molti ritengono uno tra i suoi film più riusciti, una sorta di "prova generale" per quel furore stilistico e politico che avrebbe poi consacrato la sua opera successiva. Con Salvador, Stone non si limita a dipingere un quadro, ma lo fa con pennellate ampie e violente, immergendo lo spettatore in una realtà viscerale e scomoda, anticipando la ferocia documentaristica di Platoon e l'indignazione di Nato il quattro luglio.

Una grande attenzione per la fotografia, per i dialoghi, per l’intreccio narrativo, fa di quest’opera un lungo viaggio attraverso un paese oscuro, svelandone gradualmente le terribili leggi che ne governano la realtà. La direzione della fotografia di Robert Richardson, che diventerà un collaboratore chiave di Stone, è qui già sbalorditiva, con inquadrature che non temono la crudezza della luce tropicale né l'oscurità dei vicoli insanguinati. La telecamera, spesso a spalla, non si limita a osservare: partecipa, vibra con il caos, conferendo al racconto un'immediatezza quasi documentaristica che si fonde con la tensione del thriller politico. Questa scelta stilistica eleva il film ben oltre il puro intrattenimento, trasformandolo in un'esperienza sensoriale che replica l'immersione sconcertante del protagonista.

La storia: un fotoreporter di San Francisco, Richard Boyle, attanagliato da debiti e fallimenti, da una vita dissoluta che lo ha condotto sull'orlo del baratro, parte alla volta del Salvador con un amico, l'ex disc jockey Doctor Rock, non meno incasinato di lui. È un viaggio non solo geografico, ma un inesorabile affondo nell'abisso di un'America Latina tormentata, che Stone ha il coraggio di esporre nella sua brutale complessità.

I due si troveranno proiettati in un altro pianeta, un calderone ribollente di contraddizioni e violenza dove la civiltà occidentale cede il passo a una legge della giungla dettata da interessi geopolitici e sete di potere. Verranno a contatto con efferatezze di ogni tipo: dalla prostituzione minorile all'alcolismo endemico, dalle compiacenti collusioni di Washington nella politica interna in cambio di favori strategici, alla corruzione pervasiva che ingoia ogni barlume di speranza, fino alla repressione più bieca e alle violenze di ogni tipo perpetrate dagli squadroni della morte e dalle forze governative. Stone non edulcora nulla, mostrando senza filtri la barbarie di una guerra civile alimentata anche dall'ingerenza statunitense, una ferita ancora aperta nella storia centroamericana. Il Salvador del film è un microcosmo dove si scontrano ideologie contrapposte e dove la vita umana ha un valore effimero, un tragico palcoscenico per un dramma storico che riecheggiava ancora nelle notizie dell'epoca.

Sarà un lento ma inesorabile scivolare verso il lato oscuro dell’esistenza per Boyle, che tenta disperatamente di documentarne le fasi con l’inseparabile macchina fotografica, quasi come se l'obiettivo potesse essere uno scudo contro l'orrore, o forse l'unico modo per dare un senso a ciò che altrimenti sarebbe incomprensibile. Il suo viaggio è una parabola morale: da cinico e disilluso opportunista, si trasforma gradualmente in testimone e, suo malgrado, attore, costretto a confrontarsi con una realtà che lo scuote dalle fondamenta, rivelandogli una coscienza politica e umana insospettabile. La sua vicenda, ispirata a fatti reali, è emblematica del ruolo ambiguo del giornalismo di guerra, stretto tra la necessità di raccontare la verità e il rischio di divenire parte integrante della tragedia.

Un plauso al grande estro artistico di James Woods, davvero memorabile la sua interpretazione. Woods non recita Boyle, lo incarna. La sua è una performance febbrile, quasi maniacale, intrisa di una disperazione rabbiosa che si traduce in dialoghi fulminanti e gesti disperati. Riesce a rendere credibile tanto il lato autodistruttivo e caotico del personaggio quanto la sua progressiva presa di coscienza e la sua sorprendente vulnerabilità, specialmente nel rapporto con la sua compagna salvadoregna. La sua bravura nel navigare tra l'humor nero e il terrore puro rende Boyle un antieroe indimenticabile, un uomo qualunque gettato nell'inferno che reagisce con un misto di rabbia, paura e inaspettata dignità. Questa interpretazione solitaria e travolgente è il vero cuore pulsante del film, elevandolo ben oltre la pura cronaca politica.

E un’ultima menzione alla grandezza di Oliver Stone nel restituire la crudezza di un mondo in completa disgregazione morale. Il suo è un cinema di denuncia che non teme di mostrare il volto più brutale della politica internazionale e delle sue conseguenze sui civili innocenti. Salvador non è solo un film sulla guerra, ma un'indagine profonda sull'identità e sulla responsabilità individuale di fronte all'ingiustizia, un'opera che, con la sua spietata onestà e il suo ritmo incalzante, si erge come un grido di allarme, potente e necessario, ancora oggi tristemente attuale. È un testamento alla capacità di Stone di trasformare la storia recente in un'esperienza cinematografica immersiva e indimenticabile.

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