Salvate il soldato Ryan
1998
Vota questo film
Media: 4.17 / 5
(6 voti)
Regista
I primi ventisette minuti di Salvate il soldato Ryan non sono cinema, sono una cesura epistemologica. Un violento riavvio del modo in cui l'immagine in movimento può documentare, interpretare e infine trasfigurare l'orrore. Prima di quel momento, la guerra sul grande schermo era stata, con rare e notevoli eccezioni, un affare di eroismo coreografato, di morte pulita, di una narrazione che rassicurava lo spettatore sulla nobiltà della causa e sulla chiarezza del sacrificio. Steven Spielberg, armato della fotografia desaturata e sgranata di Janusz Kamiński e del sound design assordante e soggettivo di Gary Rydstrom, prende questo paradigma e lo fa a pezzi sulla spiaggia di Omaha, con la stessa casuale brutalità con cui i proiettili tedeschi falciano i soldati americani che sbarcano.
Quella sequenza iniziale è un'esperienza sensoriale così totalizzante da trascendere la rappresentazione per diventare quasi una forma di memoria indotta. Kamiński, impostando l'otturatore della macchina da presa a 45 o 90 gradi, crea un effetto stroboscopico che spezza il movimento, rendendo ogni schizzo di sangue, ogni granello di sabbia sollevato da un'esplosione, spigoloso, iper-reale, privo di qualsiasi patina estetica. È l'anti-cinema, un documentarismo da incubo che si ispira coscientemente alle fotografie mosse e "leggermente fuori fuoco" di Robert Capa, scattate in quello stesso inferno. Il sonoro fa il resto: il fischio assordante che segue un'esplosione, il tonfo sordo dei proiettili sott'acqua, il piagnucolio disperato di un uomo che cerca i propri arti amputati. Non stiamo guardando la guerra; siamo intrappolati nel suo epicentro auditivo e visivo. È una topografia infernale che sembra strappata a una tavola di Hieronymus Bosch, una sinfonia assordante del collasso del corpo umano.
Superato questo battesimo del fuoco, che da solo basterebbe a consegnare il film alla storia, Spielberg compie la sua mossa più audace: innesta su questo realismo quasi insopportabile una narrazione che sfiora l'assurdo, una fiaba nera, una ricerca del Graal al contrario. La missione di salvare un singolo uomo, il soldato James Francis Ryan, perché i suoi tre fratelli sono già caduti, è un pretesto narrativo così sottile da diventare quasi un MacGuffin esistenziale. Un'equazione morale impossibile: vale la pena sacrificare otto uomini per salvarne uno? Il film non offre una risposta facile. Anzi, la sua grandezza risiede proprio nel rifiuto di fornirla. La missione diventa una lente attraverso cui esaminare la casualità della morte, l'arbitrarietà del valore attribuito a una vita e la disintegrazione della logica in un mondo governato dal caos.
Il Capitano John Miller, interpretato da un Tom Hanks monumentale nella sua stanchezza e nel suo pragmatismo dolente, è il nostro Virgilio in questa catabasi. Non è un eroe archetipico. È un insegnante di lettere catapultato in un ruolo che lo sta svuotando dall'interno, un uomo la cui umanità è misurata dal tremore della sua mano. La sua leadership non si fonda su discorsi altisonanti, ma su una competenza silenziosa e una disperata necessità di portare a termine il compito per poter, forse, tornare a casa e ritrovare se stesso. Miller incarna una sorta di stoicismo conradiano; è il Marlow di questo Cuore di tenebra normanno, che si addentra non nella giungla africana, ma nel cuore oscuro del conflitto stesso, alla ricerca di un Kurtz che non è un despota folle, ma l'idea stessa di "senso" in un mattatoio.
Il contrappunto morale a Miller è il caporale Upham (Jeremy Davies), il traduttore e cartografo che non ha mai sparato un colpo in vita sua. Upham è noi. È l'intelletto, la civiltà, la ragione gettata nella mischia. Rappresenta la tesi liberale secondo cui il dialogo e la comprensione possono prevalere. E il film, con una crudeltà che rasenta il nichilismo, mostra il suo completo e totale fallimento. La scena in cui Upham, paralizzato dalla paura, assiste impotente all'omicidio a sangue freddo del suo compagno Mellish da parte di un soldato tedesco che lui stesso aveva contribuito a lasciar andare, è forse il momento più agghiacciante del film. È la rappresentazione plastica del collasso dei principi etici di fronte alla violenza primordiale. Quando finalmente Upham spara, alla fine del film, non è un atto di redenzione eroica, ma la reazione spezzata e traumatizzata di un uomo la cui anima è stata irrimediabilmente corrotta. Non è diventato un soldato; è diventato un'altra vittima.
Attraverso questo viaggio, Spielberg decostruisce il mito della "guerra giusta" senza mai metterne in discussione la necessità storica. Il suo sguardo non è politico, ma profondamente umanista. I soldati non parlano di democrazia o libertà; parlano delle loro vite passate, scommettono su chi morirà per primo, si lamentano. La loro conversazione nella chiesa di Neuville, mentre attendono la notte, è un momento di quiete straziante che ricorda la letteratura della "generazione perduta" del primo dopoguerra, un'eco di Remarque o di Hemingway. La scoperta dell'identità di Miller – un insegnante di inglese – non è una rivelazione sentimentale, ma una sineddoche del dramma più grande: la guerra è la perversione definitiva, in cui uomini fatti per creare e insegnare sono costretti a distruggere per sopravvivere.
Il finale, spesso criticato per un presunto eccesso di sentimentalismo, è in realtà la chiave di volta tematica dell'intera opera. La cornice narrativa, con l'anziano Ryan che visita la tomba di Miller, trasforma l'intero film in un atto di memoria, un flashback febbrile e frammentato. Questo giustifica l'iperrealismo soggettivo della narrazione: non stiamo vedendo la storia come è accaduta, ma come è stata ricordata, impressa a fuoco nella mente di un sopravvissuto. Le ultime parole di Miller a Ryan, "Meritatelo... Merita questo", non sono un'ingiunzione patriottica, ma un fardello esistenziale. Non gli chiede di essere un eroe, ma di vivere una vita buona, una vita che possa, in qualche modo, dare un peso e un significato al sacrificio insensato di coloro che sono morti per renderla possibile. È un'eredità terribile e bellissima, l'obbligo morale di dare un senso a ciò che, intrinsecamente, non ne ha.
Uscito nel 1998, in un'America che stava riscoprendo e mitizzando la "Greatest Generation", il film di Spielberg ha avuto un impatto culturale sismico. Ha contemporaneamente alimentato quella nostalgia e l'ha completamente ridefinita, spogliandola di ogni facile retorica e sostituendola con il peso tangibile del sangue, del fango e del trauma. Ha stabilito un nuovo standard visivo e sonoro per la rappresentazione della guerra, influenzando non solo il cinema (da Black Hawk Down a Dunkirk) e la televisione (Band of Brothers, prodotto dallo stesso Spielberg e da Hanks, ne è il figlio diretto), ma anche l'universo dei videogiochi, che hanno preso in prestito la sua estetica per immergere i giocatori in campi di battaglia virtuali.
Salvate il soldato Ryan è un'opera stratificata e complessa, un blockbuster d'autore che riesce a essere allo stesso tempo uno spettacolo viscerale e una profonda meditazione filosofica. È un film sulla memoria e sulla sua inaffidabilità, sul costo della violenza e sulla fragilità della morale. È un'Odissea moderna in cui il ritorno a casa non è garantito e Itaca è solo un cimitero punteggiato di croci bianche. Spielberg non ci mostra la gloria della guerra, ma la sua grammatica più intima: il caos, il caso, il rumore e, infine, il silenzio assordante di chi non c'è più. E in quel silenzio, ci lascia con una domanda che risuona ben oltre i titoli di coda: come si può meritare un dono così terribile?
Attori Principali
Generi
Paese
Galleria







Commenti
Loading comments...
