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Sangue Blu

1949

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La commedia nera britannica nasce con questo film. Non solo un mero precursore, ma il canone stesso, il primo archetipo a dissezionare le ipocrisie di classe e la follia intrinseca del potere ereditario con un bisturi affilato e una grazia perfida. L’opera di Robert Hamer si distingue infatti per la sottile forza di un’ironia mai pedante, di un sarcasmo sussurrato, di una parodia mai enfatizzata dalla narrazione, ma piuttosto evocata da una sobria alterazione non lineare degli eventi in chiave umoristica. È una commedia di gesti più che di espressioni, di intelligenza tagliente più che di slapstick esplicito.

Si ride, insomma, ma a denti stretti e con il cervello sempre in stato di vigile allerta per cogliere ogni machiavellico simbolismo che Hamer butta in scena con destrezza demoniaca. È un umorismo che richiede la complicità intellettuale dello spettatore, invitandolo a decifrare le crepe sotto la patina di perbenismo e convenzione. La narrazione, con le sue ellissi e le sue anticipazioni, non è un mero espediente stilistico, ma un raffinato gioco di destrutturazione, quasi un'antecipazione di certe sperimentazioni formali che sarebbero fiorite decenni dopo, rivelando la modernità intrinseca di Hamer nel maneggiare il ritmo e la suspense comica.

La storia è incentrata sull’ambizione spietata di Louis Mazzini (Dennis Price), un nobile spogliato del proprio titolo ducale a causa dei burrascosi passati amorosi della madre, che fu diseredata per aver sposato un italiano, una "macchia" insostenibile per il puro "sangue blu" dei D'Ascoyne. Determinato ad acquisire il titolo di Lord ad ogni costo, Mazzini pianifica l’eliminazione sistematica di ogni erede al ducato, con una lucidità quasi contabile e una nonchalance che fa tremare. La sua è una crociata contro un sistema rigido e anacronistico, un regolamento di conti con l'aristocrazia che lo ha rifiutato. L’assurdità della sua condotta, portata avanti con una precisione chirurgica e un’eleganza quasi britannica, è il cuore pulsante di questa commedia amara. Il culmine dell’ironia beffarda si raggiunge quando, dopo aver fatto fuori otto rivali, con metodi sempre più ingegnosi e grotteschi, Louis sarà imprigionato per un omicidio che non ha commesso, la perfetta beffa del destino che condanna il colpevole per la colpa sbagliata.

Al centro di questa galleria di miserie e vizi spicca la camaleontica e a dir poco strepitosa prova di un Alec Guinness. La sua interpretazione di ben otto personaggi – le svariate e sfortunate vittime designate, tra cui persino una donna, Lady Agatha – non è una semplice dimostrazione di virtuosismo imitativo, bensì un’incarnazione grottesca eppure inquietantemente plausibile dei diversi archetipi della nobiltà decadente. Da un ottuso generale a una petulante suffragetta, da un borioso banchiere a un eccentrico reverendo, Guinness tratteggia una serie di ritratti pungenti che, pur nella loro caricatura, rivelano la vacuità e l'ipocrisia di un'intera classe sociale. Ogni personaggio è un compendio di vizi e ridicolaggini, un monito beffardo che le istituzioni più vetuste sono spesso le più fragili e le più ridicole, se solo si ha il coraggio di guardarle attraverso la lente distorta dell'ironia più spietata. Questa maestria nella trasformazione, unita alla capacità di imprimere a ogni figura un’impronta indelebile, eleva il film a un livello di virtuosismo attoriale raramente eguagliato.

Non è un caso che Peter Sellers raccoglierà idealmente la sua eredità nel Dottor Stranamore di Stanley Kubrick, interpretando anch'egli tre ruoli distinti. Il parallelismo va oltre la mera esibizione multi-ruolo, estendendosi a una condivisa propensione per la satira corrosiva, per l'umorismo intellettuale che smaschera le follie del potere e dell'animo umano. Entrambi i film sono capolavori nel loro genere, esempi di come la commedia possa essere uno strumento potente di critica sociale, capace di far ridere e riflettere contemporaneamente.

Mentre gran parte della produzione Ealing Studios era intesa a offrire un balsamo rassicurante alle ferite del dopoguerra, con le sue commedie di carattere più bonarie e nazionaliste, Sangue Blu si presentò come un tonico amaro, una catarsi attraverso il riso più sardonico. Non un’evasione, ma un’implacabile riflessione sull’ossessione di classe e sull’ipocrisia intrinseca della società britannica. La sua influenza si estende ben oltre il cinema inglese: si possono rintracciare echi di questa pellicola nel caustico umorismo dei Monty Python (pur con un diverso approccio alla demenzialità), nell'acida irriverenza di certe commedie francesi, o persino nell'eleganza formale e nella vena surreale di un Wes Anderson, nel suo formalismo quasi geometrico e nella sua capacità di far emergere l'assurdo dal quotidiano.

È un’opera che non esitiamo a definire vitale nella nascita dell’odierna commedia, un faro che ha illuminato la strada a generazioni di registi e sceneggiatori che non temono di esplorare il lato oscuro dell’animo umano con leggerezza e perfidia. A distanza di decenni dalla sua prima proiezione, Sangue Blu tuttora conserva intatti i crismi del capolavoro, rivelandosi un monito atemporale sull’assurdità dell’ambizione e sulla fragilità delle convenzioni sociali. La sua ironia, lungi dall'essere datata, continua a risuonare, dimostrando che la vera comicità, quella che tocca le corde della nostra intelligenza, è per sua natura immortale.

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