L'Intendente Sanshô
1954
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Mizoguchi pianifica e costruisce una torre d’avorio perfetta e inarrivabile nella sua rigorosa coerenza stilistica, una visione che si materializza attraverso una maestria tecnica e una sensibilità rara. La sua macchina da presa, spesso descritta come un occhio fluttuante e onnisciente, si muove con una gravità quasi rituale, prediligendo inquadrature lunghe e fluide che si dipanano come pergamene antiche, rivelando lentamente i drammi umani che si consumano entro cornici di struggente bellezza. Questa scelta stilistica, lungi dall'essere un mero vezzo formale, impone una distanza contemplativa che paradossalmente intensifica l'empatia dello spettatore, invitandolo a osservare la minuziosa coreografia della sofferenza e della resilienza senza la didascalica intrusione di primi piani emotivi. È un approccio che distingue nettamente Mizoguchi dai suoi contemporanei, come la dinamica intensità di Kurosawa o la statica introspezione di Ozu, posizionandolo in una dimensione quasi pittorica, dove ogni fotogramma è composizione e narrazione.
Un’opera formalmente straordinaria dove ricostruzione storica e caratterizzazione psicologica dei personaggi vanno di pari passo, fusi in un arazzo di realismo e lirismo. L'XI secolo giapponese non è solo uno sfondo ma un personaggio a sé, palpabile nella sua crudezza e nelle sue rigide gerarchie sociali. I costumi, le architetture essenziali, le cerimonie e le usanze di un'epoca remota sono riprodotti con una fedeltà quasi documentaristica, ma è nella profondità dell'animo umano che Mizoguchi eccelle. I personaggi, pur calati in un contesto storico specifico, trascendono il loro tempo per incarnare archetipi universali di dignità, sacrificio e ribellione. Il regista esplora le loro reazioni di fronte all'inevitabilità del fato e alla brutalità del potere, svelando non tanto le loro emozioni superficiali quanto le intricate meccaniche delle loro scelte morali e la loro indomita forza interiore, spesso manifestata attraverso la figura femminile, centrale in quasi tutta la sua filmografia.
E su tutto la visione di un indiscutibile Maestro che corrobora la propria semantica con un lessico iconografico di enorme spessore estetico. La pellicola è intrisa di simboli potenti: i boschi inospitali che inghiottono i viandanti, i corsi d'acqua che separano e uniscono, il fumo che sale dalle povere dimore degli schiavi – ogni elemento visivo contribuisce a tessere una narrazione che va oltre il singolo episodio. Le immagini di Anju e Zushio, i figli del governatore, che camminano in un mondo ostile, spesso incorniciati dalla natura indifferente o minacciosa, diventano una metafora del percorso iniziatico dell'esistenza stessa, una Via Crucis laica punteggiata da abusi e separazioni. La stessa ricerca della madre Tamaki, che pur accecata continua a implorare il nome dei figli, assurge a emblema dell'amore materno più puro e resistente, un filo rosso di speranza che attraversa la desolazione. È la capacità di Mizoguchi di elevare il dramma individuale a parabola universale, di far risuonare la sofferenza di una famiglia con il destino di tutta l'umanità, a conferire all'opera la sua risonanza atemporale, al pari di un antico mito o una tragedia greca.
La storia è tratta da un romanzo di Ogai Mori, figura eminente della letteratura giapponese di inizio Novecento, e narra le vicende di una famiglia nel Giappone feudale dell’undicesimo secolo. Mizoguchi, pur fedele allo spirito del racconto originale, lo reinterpreta attraverso il suo prisma di umanismo e critica sociale. Ogai Mori stesso era noto per le sue riflessioni sulla morale e sulla condizione umana, ma Mizoguchi ne estrapola e amplifica il nucleo di denuncia, focalizzando l'attenzione sulle vittime collaterali delle lotte di potere e sull'impatto distruttivo delle disuguaglianze.
Privata del capofamiglia, un governatore locale spedito in esilio dai suoi nemici politici per le sue idee progressiste e compassionevoli – un eco del destino di molti intellettuali idealisti – la moglie insieme ai due figli dovrà affrontare soprusi e violenze da un mondo ostile e feroce. La loro odissea è un crescendo di privazioni e umiliazioni: la separazione forzata, la vendita come schiavi, il lavoro disumano nelle proprietà dell'Intendente Sanshô, figura che incarna una crudeltà burocratica e sistemica più che individuale. La purezza e l'innocenza dei bambini sono messe a confronto con la brutalità inaudita di un sistema che mercifica la vita umana, una disumanizzazione che spinge Anju al sacrificio estremo per consentire al fratello Zushio di fuggire e cercare giustizia. Il film non risparmia allo spettatore il crudo spettacolo della sofferenza, ma lo fa sempre con una dignità quasi solenne, un rispetto per l'agonia dei personaggi che trasforma la loro tragedia in una profonda riflessione sulla natura dell'oppressione e sulla forza dell'animo umano di resistere e lottare per i propri ideali.
Premiato con il Leone d’Oro a Venezia (il terzo della carriera per Mizoguchi, un riconoscimento che lo consacra definitivamente tra i giganti del cinema mondiale del dopoguerra, insieme a Kurosawa e Ozu), L'Intendente Sanshô rappresenta un j’accuse lacerante verso lo sfruttamento delle fasce sociali più deboli ed esposte alla crudeltà di una realtà che sembra incarnare il motto del filosofo Hobbes: Homo Homini Lupus. Ma Mizoguchi va oltre la semplice constatazione di questa brutalità; egli ne esamina le radici e le conseguenze con una lucidità rara. Il film è una requisitoria contro l'arbitrio del potere, la disumanizzazione generata dalla schiavitù e l'eterna lotta tra compassione e crudeltà. Eppure, nel suo cuore più intimo, non è un'opera priva di speranza. Nonostante l'amarezza del percorso, il ritorno di Zushio come nuovo governatore, deciso a rovesciare il regime di schiavitù e a riscattare l'onore della famiglia, introduce un elemento di redenzione e il trionfo della giustizia sui soprusi. La commovente scena finale, in cui ritrova la madre anziana e cieca sulla spiaggia, è un momento di struggente ricongiungimento che suggella il tema della perseveranza e dell'amore filiale come fari di umanità in un mondo di tenebre, un contrappunto lirico e indimenticabile alla ferocia che li aveva travolti. È in questa dialettica tra l'orrore del mondo e la resilienza dello spirito umano che L'Intendente Sanshô si rivela non solo un capolavoro cinematografico, ma una meditazione eterna sulla fragilità e la nobiltà dell'esistenza.
Attori Principali
Generi
Paese
Galleria





Commenti
Loading comments...