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Scappa - Get Out

2017

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La stirpe dei mostri cinematografici ha sempre avuto il volto dell'Altro: il vampiro aristocratico dell'Est Europa, la creatura rianimata da un fulmine prometeico, l'alieno informe venuto dalle stelle. Jordan Peele, con il suo folgorante esordio "Scappa - Get Out", compie un'inversione copernicana tanto semplice quanto geniale: il mostro non è l'Altro, ma siamo noi. O, più precisamente, è il sorriso benevolo e accomodante della borghesia liberal americana, quella che avrebbe "votato per Obama una terza volta, se avesse potuto". Il terrore non si annida nell'oscurità di un castello gotico, ma nel chiarore accecante di un prato suburbano perfettamente curato, durante un garden party baciato dal sole.

Il film si presenta sotto le mentite spoglie di una commedia degli equivoci à la "Indovina chi viene a cena?", per poi sfilarsi la maschera con la precisione chirurgica di un Hannibal Lecter che disseziona la sua vittima. Chris, fotografo nero di talento, si appresta a conoscere i genitori della sua fidanzata bianca, Rose Armitage. La tensione iniziale, giocata su micro-aggressioni e imbarazzi fintamente progressisti ("Sai, mio padre adora Tiger Woods"), è già di per sé un'architettura del terrore psicologico. Ogni frase è una trappola, ogni complimento un'arma. Peele orchestra questa sinfonia del disagio con la maestria di un Roman Polanski in "Rosemary's Baby", dove il male non è un'intrusione esterna, ma una cospirazione intima, perpetrata dalle persone che dovrebbero proteggerti. Rose, come il Guy Woodhouse di John Cassavetes, è l'agente del diavolo travestito da amorevole partner, e la sua villetta unifamiliare è sinistra quanto il Dakota Building.

La grandezza di "Get Out" risiede nella sua capacità di tradurre un'angoscia sociale e storica in un'iconografia horror completamente originale. Il "Luogo Sommerso" (the Sunken Place), lo stato di paralisi ipnotica in cui la matriarca Missy Armitage intrappola le sue vittime, è una delle più potenti invenzioni visive del cinema del XXI secolo. È la materializzazione dell'impotenza, la rappresentazione letterale della perdita di agency. Chris fluttua in un vuoto nero e silenzioso, costretto a osservare il mondo attraverso un minuscolo schermo, il suo corpo che si muove senza il suo consenso, le sue urla che non producono suono. È un'immagine che trascende il film stesso, diventando una metafora universale della marginalizzazione, della sensazione di essere un passeggero impotente nella propria esistenza, una coscienza intrappolata in una narrazione scritta da altri. Esteticamente, evoca gli abissi della psiche esplorati dal surrealismo di un Salvador Dalí o di un Luis Buñuel, ma Peele lo contamina con una specificità culturale che lo rende dolorosamente concreto.

Se "La fabbrica delle mogli" di Ira Levin (e il suo magnifico adattamento del 1975) satirizzava la sottomissione patriarcale nella placida periferia del Connecticut, "Get Out" ne è l'erede spirituale, traslando il conflitto dal genere alla razza. Gli Armitage e i loro amici non vogliono eliminare i neri; al contrario, li desiderano. Li bramano. Ma il loro desiderio non è un anelito all'uguaglianza, bensì una feticizzazione predatoria, una forma estrema di consumismo applicata all'essere umano. Desiderano la prestanza fisica dell'atleta, l'occhio artistico del fotografo, la "coolness" innata. È un'appropriazione culturale che diventa letteralmente un'appropriazione corporea attraverso la blasfema procedura chirurgica del "Coagula". In questo, il film si avvicina a una certa corrente del weird e del body horror, ma con una lucidità sociologica che lo eleva. L'orrore non è la mutazione del corpo, come in Cronenberg, ma la sua espropriazione. Il corpo diventa un mero veicolo, un involucro di pregio per una coscienza decrepita.

Peele gioca con i codici del genere con un'intelligenza metatestuale sopraffina. L'isolamento della casa in campagna, la perdita di segnale del cellulare, il comportamento strano dei "domestici" (che ricordano gli automi di Stepford), sono tutti cliché dell'horror che qui vengono riprogrammati per servire un commento sociale. Il personaggio di Rod, l'amico di Chris agente della TSA, è una trovata geniale. È la voce dello spettatore di horror navigato, quello che urla allo schermo "Non entrare in quella casa!". È l'ancora di salvezza comica che, allo stesso tempo, rappresenta la lucidità del mondo esterno, una sanità mentale che sembra follia agli occhi di chi non riesce a vedere la mostruosità che si nasconde dietro la cortesia.

L'opera di Peele è profondamente radicata nel suo tempo, ma la sua analisi va oltre la contingenza politica. Concepito durante l'era Obama, un periodo spesso descritto con l'illusoria etichetta di "post-razziale", il film agisce come un bisturi affilato che incide quella superficie levigata per rivelare il marciume sottostante. Il mostro di "Get Out" non è il suprematista bianco con la svastica tatuata in fronte, ma l'acquirente d'arte cieco che brama "l'occhio" di Chris, o il neurochirurgo che vuole il suo corpo sano. Questo tipo di male è più insidioso, perché si ammanta di ammirazione e progresso, rendendo la vittima quasi colpevole di paranoia. La lucidità di Peele sta nel comprendere che l'oggettivazione, anche quando si maschera da complimento, è una forma di disumanizzazione.

Si potrebbe persino azzardare un parallelo con la narrativa di H.P. Lovecraft, un autore il cui genio cosmico era notoriamente inquinato da un profondo razzismo. In "Get Out", le vittime subiscono un orrore che è, in un certo senso, lovecraftiano: sono alla mercé di un'entità antica, potente e incomprensibile (il culto della famiglia Armitage), un ordine segreto le cui motivazioni sono tanto aliene quanto terrificanti. Ma Peele ribalta la prospettiva di Lovecraft: la minaccia non proviene dall'esterno, dal sangue "impuro" o dalle divinità aliene, ma dal cuore stesso dell'establishment WASP. L'orrore cosmico diventa un orrore sociale.

La scelta, da parte di Peele, di modificare il finale originale – che vedeva Chris arrestato dalla polizia, in una conclusione amaramente realistica – a favore di un salvataggio catartico da parte di Rod, è stata una decisione cruciale. Non è un lieto fine ingenuo, ma un atto di grazia cinematografica. Dopo un'ora e mezza di tensione soffocante e di impotenza quasi totale, concedere al protagonista e al pubblico una via di fuga, un trionfo, seppur momentaneo, trasforma il film da una mera, seppur brillante, esegesi sociale in un mito moderno. Un mito che riconosce l'orrore, lo guarda dritto negli occhi e, per una volta, permette all'eroe di scappare. "Scappa - Get Out" è un'opera che funziona su ogni livello: come thriller mozzafiato, come satira feroce e come saggio culturale di rara intelligenza. Un film che non si limita a spaventare, ma costringe a pensare, a guardarsi allo specchio e a chiedersi cosa si nasconda dietro il proprio sorriso più rassicurante.

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