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Schindler's List

1993

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Uno Steven Spielberg raffinato ed emozionante quello che si getta a capofitto in questo film tratto dallo sconvolgente libro di Thomas Keneally sulla vera storia dell’industriale tedesco Oskar Schindler. Ma è soprattutto la maturità artistica di un cineasta che, dopo aver dominato l'immaginario collettivo con avventure e fantascienza, si confronta qui con la Storia in maiuscolo, che rende Schindler's List un'opera monumentale e un punto di svolta nella sua carriera. Il film non è solo una cronaca di eventi, ma un'esplorazione profonda della natura umana, della malvagità più efferata e della scintilla di umanità che può divampare nell'oscurità più profonda.

Spielberg è un perfezionista al massimo grado, un cineasta completo che non lascia nulla al caso: e infatti per questo film consulta, nella fase pre-produttiva, una mole impressionante di documenti storici passando al setaccio centinaia di filmati d’epoca. La sua dedizione alla veridicità storica è quasi ossessiva, non per una mera fedeltà didascalica, ma per ancorare l'orrore in una realtà tangibile e inconfutabile. Si dice abbia persino rifiutato l'offerta di un compenso per la regia, devolvendo i profitti futuri del film a fondazioni ebraiche, un gesto che testimonia il profondo impatto personale che il progetto ebbe su di lui.

Dunque non stupisce la sua decisione di girare in un sofisticato bianco e nero che richiamasse i toni cromatici dei cinegiornali degli anni quaranta e, soprattutto, dei documentari girati dai giornalisti russi e americani che giunsero nei campi di concentramento subito dopo la liberazione. Questa scelta non è mero artificio estetico o pedissequa riproduzione di un'estetica d'epoca; è una deliberata rinuncia al colore che eleva il racconto a una dimensione quasi archetipa, sottraendo alla realtà ogni possibile distrazione cromatica. Costringe lo sguardo dello spettatore a posarsi sull'essenza, sui volti scarnificati dalla paura e dalla speranza, sulle texture dei tessuti, sulle pieghe dell'anima. Un bianco e nero che trapassa il cuore e snuda le emozioni vere, quelle da cui il narrato prende vita e forma. In questo cupo spettro di grigi, la celeberrima, e forse unica, apparizione del colore – il cappottino rosso della bambina nel Ghetto di Cracovia – agisce come un fulmine a ciel sereno, un pugno nello stomaco che squarcia il velo dell'indifferenza. Quel rosso non è un dettaglio casuale, ma la visualizzazione dell'innocenza innocua, visibile a chiunque, ma ignorata e calpestata dalla barbarie sistemica. È il simbolo di ciò che è stato perduto, il sangue che non poteva essere lavato via.

Si narra la storia di Oskar Schindler, un industriale tedesco che dedicherà la sua vita e le sue risorse a salvare il maggior numero di ebrei dall’Olocausto. Schindler non è dipinto come un santo da subito, bensì come un opportunista, un profittatore di guerra animato da una pragmatica avidità che lo spinge a sfruttare la manodopera ebrea. È attraverso il contatto quotidiano con l'orrore indicibile, con la sistematica disumanizzazione perpetrata dal regime nazista, che la sua coscienza si risveglia, rivelando una sorprendente capacità di empatia e un coraggio morale inaspettato.

Legato alle alte gerarchie naziste sfrutterà la sua influenza per farsi assegnare nella propria fabbrica di pentole in Polonia gli ebrei catturati dalla Gestapo. Inizialmente ne prenderà con sè un centinaio, alla fine saranno oltre 1200 gli ebrei salvati dal tritacarne di Auschwitz. Nel salvarli incrocerà le loro storie, parteciperà al loro dolore, diverrà uno di loro. Il suo percorso è una testimonianza potentissima della possibilità di redenzione, non in senso religioso, ma come riscoperta della propria umanità in un contesto che spingeva all'annientamento totale di ogni valore etico. La "lista" stessa diventa metafora di vita e morte, un arido documento burocratico trasformato in una Bibbia della sopravvivenza.

Un film che di fatto assurge a straordinario documento storico, impreziosito dalla stupefacente fotografia di Janusz Kaminski che inizia con questo film un sodalizio con Spielberg che durerà fino ai giorni nostri. L'occhio di Kaminski, spesso attraverso l'uso della camera a mano per una maggiore immediatezza, cattura l'intimità del dramma umano e l'orrore monumentale dei campi di sterminio con una precisione quasi documentaristica, pur mantenendo una potente risonanza emotiva. Questo approccio visivo ha influenzato profondamente il modo in cui il cinema ha affrontato i drammi storici successivi, ponendo un nuovo standard di realismo e sensibilità.

Alcune scene, realizzate con cura maniacale per i particolari, devastano il cuore dello spettatore: come non ricordare la crudele sequenza in cui Amon Goeth (interpretato da un inquietante Ralph Fiennes), comandante di Auschwitz, svegliandosi e scrollandosi di dosso i postumi del sonno imbraccia un fucile con mirino telescopico e uccide prigionieri ebrei a caso dal balcone della sua abitazione per poi stiracchiarsi compiaciuto ed andare incontro alla giornata. Questa scena è agghiacciante proprio per la sua "banalità del male", non c'è rabbia o fanatismo esplicito, ma una fredda, disarmante indifferenza verso la vita umana, trattata come un bersaglio da poligono. La casualità della morte, la normalizzazione dell'atrocità come routine mattutina, rendono Goeth un archetipo terrificante dell'orrore burocratico e disumano. L'impatto di Schindler's List non si è limitato alle sale cinematografiche; la sua visione ha mosso Spielberg a fondare la Survivors of the Shoah Visual History Foundation, oggi USC Shoah Foundation, un archivio mastodontico di testimonianze video dei sopravvissuti, un baluardo contro l'oblio e il negazionismo, trasformando il successo artistico in un impegno etico di portata globale che ancora oggi risuona potente.

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