Se...
1968
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Regista
Un colpo di fucile che squarcia il silenzio polveroso di una cappella gotica. Un’immagine, un suono, un atto che è allo stesso tempo il punto di partenza e il manifesto programmatico di "Se...", l’opera tellurica con cui Lindsay Anderson, nel 1968, non si limitò a filmare la ribellione giovanile, ma ne distillò l’essenza più pura, caustica e surrealista, consegnandola all’eternità. Per comprendere la deflagrazione di questo film, è necessario calarsi nel suo anno di nascita. Il 1968 non è solo una data; è un codice, un sisma culturale che scuote il pianeta. Mentre a Parigi gli studenti erigono barricate e la Primavera di Praga viene schiacciata dai cingoli, in un college inglese, apparentemente isolato dal mondo, un gruppo di ragazzi inscena la propria, personalissima rivoluzione. Anderson, uno dei padri del Free Cinema britannico, cattura questo spirito non con il piglio del documentarista, ma con la visionarietà del poeta e l'acume del sociologo.
Il College, con la sua architettura secolare, i suoi rituali anacronistici e la sua gerarchia oppressiva, diviene un microcosmo perfetto dell'establishment britannico, e per estensione, di ogni struttura di potere rigida e autoritaria. È un mondo diviso in caste: i "Whips" (i prefetti), sadici esecutori di un ordine insensato, custodi di una tradizione svuotata di significato; e gli "Scum" (la feccia), le matricole destinate a subire angherie che oscillano tra il farsesco e il disumano. In questo sistema, la disciplina è una forma di violenza ritualizzata e la tradizione un alibi per la prevaricazione. Anderson orchestra questa rappresentazione con un'arguzia che ricorda l'assurdismo di un Eugène Ionesco trasferito tra i chiostri di Eton. Le regole sono arbitrarie, le punizioni sproporzionate, la logica è bandita in favore di una consuetudine che si auto-giustifica per il solo fatto di esistere da sempre.
Al centro di questo universo concentrazionario sorge la figura di Mick Travis, interpretato da un Malcolm McDowell al suo folgorante esordio, il cui volto è una maschera di sfida e il cui sorriso sardonico diventerà un'icona del cinema anti-autoritario. Mick non è un ideologo. Non ha letto Marx né Bakunin. La sua è una ribellione istintiva, esistenziale, quasi estetica. Insieme ai suoi sodali, i "Crusaders", non progetta un rovesciamento politico; semplicemente, rifiuta di partecipare al gioco. Il loro santuario è una stanza tappezzata di immagini ritagliate dalle riviste: guerriglieri, animali feroci, corpi nudi. Un collage visivo che è la loro unica, vera costituzione, un altare all'immaginazione contro la prosaicità repressiva del College. La ribellione di Mick è quella di un Rimbaud con la sciarpa del college, un'insurrezione che nasce più dal disgusto per la bruttezza del potere che da un coerente piano rivoluzionario.
La grandezza di Anderson sta nel tradurre questo spirito in un linguaggio cinematografico radicalmente libero. Il film scivola con naturalezza dal realismo più crudo al surrealismo più sfrenato, abbattendo il muro tra ciò che è e ciò che è sognato. L'alternanza tra bianco e nero e colore, nata, come narra la leggenda produttiva, da necessità di budget (illuminare la vasta cappella a colori sarebbe stato proibitivo), diventa una scelta stilistica geniale. Il bianco e nero non è il passato, ma la monotonia opprimente del presente istituzionale; il colore esplode nei momenti di fuga, di fantasia, di violenza liberatoria. È il cinema stesso che si ribella alle proprie convenzioni, che dichiara la propria libertà formale in parallelo alla lotta dei suoi protagonisti. Quando il rettore, durante una perquisizione, apre un cassetto della scrivania di Mick e ne estrae se stesso, in miniatura e sorridente, non siamo di fronte a un vezzo da avanguardia, ma alla più lucida rappresentazione del potere come farsa autoreferenziale. Anderson attinge a piene mani dall'eredità di Jean Vigo e del suo "Zéro de conduite" (1933), il padre spirituale di ogni racconto di rivolta scolastica, ma lo contamina con il veleno dissacrante di Luis Buñuel. L'apparizione estemporanea della ragazza (Christine Noonan) nella camerata maschile, o l'immagine di un feto di tigre conservato in un barattolo, sono pugnalate surrealiste nel fianco del realismo britannico, squarci che rivelano il subconscio pulsante sotto la superficie della rispettabilità.
Il percorso dei "Crusaders" è una discesa graduale e deliberata nell'illegalità. Inizia con piccoli atti di insubordinazione – bere vodka, fumare, ascoltare la Missa Luba con il suo Sanctus congolese che irride la liturgia anglicana – per poi intensificarsi: la fuga dal campus su una motocicletta rubata, l'incontro erotico e surreale con la cameriera in un caffè, fino all'atto che segna il punto di non ritorno. La punizione corporale subita da Mick e compagni non è la causa della loro rivoluzione, ma solo il catalizzatore. È la conferma che il sistema non può essere riformato, ma solo distrutto. La violenza del potere, per quanto ritualizzata e "giusta" secondo le sue stesse regole, genera una violenza speculare, ma anarcoide e purificatrice.
Il finale è una delle sequenze più potenti e ambigue della storia del cinema. Durante il "Founders' Day", la cerimonia che celebra la tradizione del College, Mick e i suoi compagni, barricati sul tetto, aprono il fuoco sulla folla di genitori, professori e generali. È reale? È una fantasia di vendetta? Anderson, magistralmente, si rifiuta di dare una risposta. La macchina da presa si sofferma sul volto di McDowell, il cui sguardo furente buca lo schermo, mentre spara senza sosta. Non importa se quella strage stia accadendo davvero o solo nella mente dei protagonisti. Ciò che conta è la necessità di quell'immagine, la sua catartica e terribile inevitabilità. È il punto esclamativo dopo il "Se..." del titolo. Se si spinge un individuo oltre il limite, se si nega la sua umanità in nome di un ordine astratto, la sua unica risposta possibile diventa la distruzione di quell'ordine.
"Se..." è il primo capitolo della trilogia non ufficiale di Mick Travis, che proseguirà con le satire picaresche di "O Lucky Man!" (1973) e "Britannia Hospital" (1982), componendo un affresco corrosivo dello stato della nazione britannica. Ma questo primo film conserva una purezza e una rabbia che rimangono insuperate. Non è un pamphlet politico; è un poema visivo sull'anarchia come gesto di sopravvivenza spirituale. È il "Urlo" di Allen Ginsberg trasposto in un'aula scolastica, un atto di sabotaggio culturale che utilizza la grammatica del cinema per smantellare la grammatica del potere. A più di cinquant'anni dalla sua uscita, la sua carica iconoclasta non ha perso un grammo della sua efficacia. Ci ricorda che prima di ogni ideologia, prima di ogni programma politico, la rivoluzione è uno stato d'animo, un irrefrenabile, disperato e, a volte, gioioso desiderio di dire "no". E di imbracciare un fucile, fosse anche solo quello dell'immaginazione.
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