Movie Canon

The Ultimate Movie Ranking

Se7en

1995

Vota questo film

Media: 0.00 / 5

(0 voti)

Un’opera al nero che fa dell’angoscia crescente, del senso opprimente di persecuzione i suoi pilastri semantici. Non è semplicemente un thriller, ma un’esplorazione viscerale e intellettuale della decadenza morale, un neo-noir che trascende il genere per farsi commento filosofico sulla condizione umana in un’era di apatia e disperazione. Fincher non si limita a mostrarci il male; ci immerge in esso, ne fa respirare l’aria viziata e satura di pioggia incessante.

Se7en è un film che, pur rientrando nei tipici canoni del film poliziesco – un serial killer metodico, due poliziotti che indagano sui suoi macabri crimini, un rituale di morte intrinsecamente simbolico – li destruttura e li reinventa con una ferocia e una lucidità disarmanti. La sua forza non risiede nella novità della premessa, quanto piuttosto nella brutalità con cui essa viene sviluppata e, soprattutto, nella sua implacabile, quasi nichilista, conclusione. È un’ode alla disillusione, un affresco perturbante di un’umanità che ha smarrito la propria bussola etica, e in cui il male non è un’aberrazione ma una piaga endemica.

Ciò che rende Se7en realmente interessante, e un punto di svolta per il cinema di genere, è l’uso magistrale della cinepresa, della fotografia, e l’impianto narrativo di una sceneggiatura (ottima la penna di Andrew Kevin Walker, che seppe resistere alle pressioni per ammorbidire un finale così radicale), tutti elementi asserviti con rara coerenza alla creazione di un’atmosfera cupa, incerta, permeata da una sensazione di umidità e squallore urbano. Persino il nome della città in cui è ambientata la vicenda è un dato non conoscibile, un non-luogo che riflette una condizione esistenziale universale, non geografica: la metropoli è qui un mero contenitore della corruzione, un ecosistema di sporcizia fisica e morale.

Si è detto della fotografia: uno strumento davvero al servizio della narrazione, elevato a vero e proprio linguaggio autonomo. Darius Khondji, il direttore della fotografia (già collaboratore di Jeunet e Caro in Delicatessen, e in seguito artista della luce per registi del calibro di Wong Kar-Wai e Woody Allen), compie un’operazione di incupimento e di filtraggio della luce scenica di rara intensità. Attraverso l’uso sapiente di tecniche come il bleach bypass, che desatura i colori e intensifica il contrasto, Khondji crea una tavolozza di grigi opachi, verdi malati e marroni terrosi, riverberando visivamente il crescente senso di angoscia che il film instilla. Non è solo assenza di luce, ma una luce corrotta, malata, che pervade ogni inquadratura, trasformando anche il giorno in una continuazione di un incubo nebbioso e piovoso.

Due poliziotti, il veterano cinico ma ancora idealista William Somerset (un Morgan Freeman in stato di grazia, emblema di una saggezza stanca ma non arresa) e il giovane impulsivo e idealista David Mills (un Brad Pitt che dimostra una sorprendente capacità di scavare nelle fragilità psicologiche), sono sulle tracce di un serial killer che uccide le sue vittime seguendo il percorso dei sette peccati capitali. Ogni vittima rappresenta il peccato per cui ha ecceduto in vita e viene punita facendone un esempio, un simbolo di rinascita attraverso la purificazione della morte. Il modus operandi del killer, John Doe, non è casuale: è una forma perversa di predicazione, un sermone macabro sulla decadenza di una società che ha smarrito ogni senso etico, divenuta cieca e indifferente ai propri vizi. La sua brutalità non è fine a sé stessa, ma un mezzo per risvegliare le coscienze sopite attraverso l'orrore, un'esegesi biblica portata alle sue estreme e più crudeli conseguenze.

I due poliziotti, ognuno portatore di una visione del mondo agli antipodi, si renderanno presto conto che anche la loro indagine fa parte del diabolico piano del killer. John Doe non è un semplice assassino da catturare, ma un architetto del destino, un regista della tragedia, che manipola gli eventi e le vite dei protagonisti con una precisione chirurgica. La sua intelligenza glaciale e la sua dedizione monacale al suo “lavoro” lo elevano al di sopra del comune criminale, facendone quasi una forza della natura, un profeta oscuro di una giustizia divina distorta. La partita tra cacciatore e preda si rovescia continuamente, svelando un’intricata rete di manipolazione in cui Mills e Somerset sono, a loro insaputa, gli ultimi, e forse i più significativi, pezzi sulla scacchiera mortale di Doe.

Menzione speciale e doverosa per la scena finale, una sequenza che è diventata un’icona cinematografica e che cristallizza la filosofia del film. In quel deserto arido e assolato, Fincher gestisce magistralmente la suspense e la tensione che crescono esponenzialmente con il susseguirsi degli eventi, fino al colpo di scena che ribalta ogni aspettativa. L’escalation emotiva è palpabile, una progressione ineluttabile verso l’orrore e la disperazione, orchestrata con una precisione quasi sadica. Il silenzio assordante, rotto solo dal vento e dal rumore lontano di un elicottero, amplifica la claustrofobia emotiva. La rivelazione del contenuto della scatola, "What's in the box?!", non è solo un plot twist, ma la materializzazione dell’inevitabile trionfo della visione nichilista di John Doe. Il finale non offre catarsi né redenzione, ma un pugno allo stomaco che lascia lo spettatore con un senso di profonda desolazione. È la vittoria del male non come evento isolato, ma come ineluttabile destino in un mondo che ha smesso di lottare, e che dimostra come l’oscurità più profonda risieda non nel mostro, ma nella sua capacità di farci crollare, in un attimo, ogni residua speranza nell’ordine e nella giustizia.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8
Immagine della galleria 9
Immagine della galleria 10

Commenti

Loading comments...