Secondo amore
1955
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Regista
Dentro la prigione di cristallo del Technicolor, ogni colore è un grido. Le foglie d'autunno in "Secondo amore" di Douglas Sirk non sono semplicemente rosse o arancioni; sono di un'intensità febbrile, parossistica, come il sussulto finale di una natura che sta per essere soffocata dalla neve e, metaforicamente, dalla società. È in questa foresta cromatica, quasi allucinatoria nella sua perfezione estetica, che Sirk, il più grande architetto della disperazione in abito da sera, costruisce uno dei più spietati e sontuosi atti d'accusa contro il Sogno Americano mai concepiti. Un film che, sotto le spoglie del "woman's picture", del melodramma per signore di mezza età, nasconde un cuore nero e pulsante, un saggio brechtiano mascherato da fotoromanzo.
La trama, nella sua essenzialità, è un archetipo: Cary Scott (Jane Wyman), vedova benestante di una cittadina del New England, si innamora del suo giovane e aitante giardiniere, Ron Kirby (Rock Hudson). Un amore che sfida le convenzioni di classe, età e cultura. Ma descrivere "Secondo amore" in questi termini è come descrivere "Moby Dick" parlando di un uomo a cui non piacciono le balene. Il genio di Sirk, esule tedesco che osservava la società americana con l'acume entomologico di un outsider, non risiede nella storia, ma nel modo in cui la diegesi viene intrappolata, riflessa e distorta da ogni superficie lucida. Finestre, specchi, schermi televisivi: tutto nel mondo di Cary è una vetrina o una gabbia, un modo per vedere ed essere visti, un'interfaccia che separa il sé autentico dall'immagine pubblica. L'inquadratura più celebre, e forse una delle più iconiche del cinema del XX secolo, non mostra un bacio appassionato, ma il riflesso desolato di Cary nello schermo spento del televisore che i suoi figli le hanno appena regalato per "tenerle compagnia", sigillando la sua solitudine in un feticcio tecnologico che è la sineddoche stessa della sua esistenza borghese.
Sirk non filma personaggi, ma prigionieri che scambiano la loro cella per una casa. La villa di Cary è un mausole di buon gusto, un trionfo di interni impeccabili dove ogni soprammobile sembra urlare la propria costosa inutilità. È un ambiente che ricorda la precisione soffocante dei romanzi di Edith Wharton o Henry James, in cui le convenzioni sociali hanno la stessa forza ineluttabile delle leggi fisiche. Di contro, il mondo di Ron è un mulino ristrutturato, un rifugio che odora di legno e terra, dove si legge Thoreau – e non è un caso. Ron Kirby non è solo un "oggetto del desiderio" più giovane; è l'incarnazione di un'utopia trascendentalista, un discepolo di Walden Pond piombato nell'incubo suburbano dell'era Eisenhower. La sua filosofia ("a ciascuno il suo stile di vita") è un anatema per la comunità di Stoningham, un organismo unicellulare la cui unica funzione è l'autoconservazione attraverso l'espulsione di ogni elemento estraneo.
I "cattivi" del film non sono individui malvagi, e questo è il colpo di genio più crudele di Sirk. Sono i figli premurosi, gli amici affettuosi, i vicini sorridenti. La loro ostilità non si manifesta con violenza, ma con pettegolezzi sussurrati durante cocktail party, con sguardi di sbieco, con una cortesia gelida che è più letale di un'ingiuria diretta. Il loro è il terrore della non conformità, la paura che la felicità individuale di Cary possa far crollare l'intero, fragile castello di carte delle loro vite basate sull'apparenza. La scena in cui il figlio di Cary, con un'ipocrisia da manuale di psicoanalisi, le spiega che la sua relazione sta rovinando la sua "vita sociale" al college è un capolavoro di violenza psicologica mascherata da preoccupazione filiale. Sirk ci mostra come la repressione più efficace non sia quella imposta dall'alto, ma quella che si auto-genera e si auto-alimenta all'interno del tessuto sociale stesso, una forma di fascismo soft in abiti pastello.
La tavolozza di Sirk è un linguaggio a sé stante. I colori non sono realistici, sono espressionisti. Funzionano come la musica di Frank Skinner, sottolineando e spesso contraddicendo ciò che accade sullo schermo. Il rosso dell'abito da sera di Cary è il colore della passione repressa, il blu cianotico delle scene notturne è il colore della sua malinconia, il giallo e il verde della casa di Ron sono quelli di una vitalità naturale quasi perduta. Sirk usa il Technicolor non per abbellire la realtà, ma per smascherarne l'artificialità. Il suo mondo è così esteticamente perfetto da risultare innaturale, iperreale, come i quadri di Edward Hopper se avessero deciso di esplodere in una gamma cromatica quasi pop. Ogni inquadratura è una composizione pittorica meticolosa, un "tableau vivant" della disperazione borghese, dove le geometrie degli arredi e delle architetture sovrastano e imprigionano le figure umane.
L'influenza di "Secondo amore" è stata sismica, anche se ci sono voluti decenni perché la critica "alta" se ne accorgesse, liberando il melodramma sirkiano dal ghetto del cinema di genere. Senza la lezione di Sirk, non avremmo il cinema di Rainer Werner Fassbinder, il cui "La paura mangia l'anima" è una riscrittura esplicita e brutale di "Secondo amore" nella Germania degli anni '70, sostituendo la differenza d'età con quella razziale. Non avremmo "Lontano dal paradiso" di Todd Haynes, un'opera meta-cinematografica che è al contempo un omaggio filologico e una decostruzione postmoderna dell'universo sirkiano. Perfino David Lynch, con la sua ossessione per il marcio che si nasconde sotto la superficie patinata della provincia americana, è in debito con la visione di Sirk.
La produzione stessa del film è un aneddoto che riflette i suoi temi. Jane Wyman, più vecchia di Rock Hudson, era preoccupata che la differenza d'età fosse troppo evidente. La Universal, dal canto suo, vedeva in Rock Hudson una promessa di mascolinità virile e rassicurante, un'icona del maschio americano ideale, ignorando (o forse, subdolamente sfruttando) una complessità personale che, a posteriori, aggiunge un ulteriore, tragico strato di lettura a ogni sua performance. Hudson, l'uomo costretto a vivere una vita di apparenze, interpreta qui l'unico personaggio autentico in un mondo di maschere. Una meta-ironia così densa che solo un demiurgo come Sirk avrebbe potuto orchestrare.
Il finale è un capolavoro di ambiguità. Cary, dopo aver rinunciato a Ron per il bene dei figli e della sua reputazione, cede infine al proprio desiderio e torna da lui. Lo trova convalescente dopo una caduta quasi fatale. L'ultima inquadratura ci mostra la coppia riunita, osservata dall'esterno della finestra da un cervo, simbolo di quella natura che hanno cercato di abbracciare. È un happy end? In apparenza sì, ma Sirk è troppo intelligente, troppo cinico per concederci una consolazione così a buon mercato. La felicità è stata raggiunta, ma a quale prezzo? Ron è ferito, indebolito. La loro unione non è più una fuga idilliaca, ma una scelta che richiederà cura, sacrificio, e che avverrà sempre sotto lo sguardo giudicante del mondo esterno, simboleggiato da quella finestra che è, ancora una volta, una barriera trasparente. "Secondo amore" non ci dice che l'amore vince tutto. Ci dice che il massimo che il Cielo permette ("All That Heaven Allows", come recita il titolo originale, molto più calzante) è una vittoria parziale, una felicità fragile e imperfetta, strappata con le unghie e con i denti alle fauci del conformismo. E in questa verità amara, avvolta nella più abbagliante delle menzogne cromatiche, risiede la sua sconvolgente, immortale modernità.
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