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Sesso, bugie e videotape

1989

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Esistono opere che non si limitano a raccontare una storia, ma che fissano un’immagine indelebile del proprio tempo, diventando sismografi di un’intera generazione. Sesso, bugie e videotape di Steven Soderbergh è una di queste. All’alba dei Novanta, mentre il cinema americano era ancora ebbro dei muscoli reaganiani e degli high-concept fracassoni, un ventiseienne con una videocamera e un’idea folgorante piantò un chiodo nella bara dell’edonismo yuppie. Il film non è semplicemente un film; è un manifesto, un punto di non ritorno che ha spalancato le porte al cinema indipendente americano come lo conosciamo, un’opera la cui apparente semplicità nasconde abissi di complessità psicologica e una preveggenza quasi spaventosa.

Siamo a Baton Rouge, Louisiana, in un’atmosfera afosa e stagnante che è lo specchio dell'anima dei suoi quattro protagonisti. La struttura è quella di una gelida partitura da camera, un quartetto d'archi disarmonico che suona la melodia della disconnessione. Ann (Andie MacDowell), moglie borghese intrappolata in una frigidità che analizza con distacco quasi accademico dal suo terapeuta; suo marito John (Peter Gallagher), avvocato rampante e traditore seriale, incarnazione perfetta del maschio yuppie la cui arroganza è un sottile velo sulla propria vacuità; Cynthia (Laura San Giacomo), la sorella di Ann, pittrice bohémien e amante di John, la cui sfrontatezza sessuale è anch’essa una forma di corazza. In questo triangolo di ipocrisie suburbane irrompe Graham (un James Spader magnetico e disturbante), un vecchio amico di college di John. Graham è l'elemento perturbante, l’agente del caos. È impotente, vive una vita monastica e itinerante, e ha un’unica, strana ossessione: intervistare donne con una videocamera, chiedendo loro di raccontare le proprie esperienze e fantasie sessuali più intime. Non ha rapporti con loro; la sua unica forma di gratificazione è rivedere, da solo, quelle confessioni registrate su nastro.

A una prima lettura, il film potrebbe sembrare un commentario sulla perversione e il voyeurismo, un cugino più intellettuale e meno letale del Peeping Tom di Michael Powell. Ma l'analisi di Soderbergh è infinitamente più sottile e profonda. La videocamera di Graham non è lo strumento di un predatore, ma il bisturi chirurgico di un confessore laico. In un mondo costruito su un castello di bugie – il matrimonio di Ann e John, la finta complicità tra le sorelle, la mascolinità tossica di John – la fredda oggettività della lente elettronica diventa l'unico veicolo possibile per una scheggia di verità. Graham, con la sua impotenza, è l'antitesi del machismo yuppie di John. Non cerca il possesso fisico, ma una forma di intimità mediata, filtrata, forse l'unica che riesce a concepire in un'epoca che ha mercificato ogni emozione. Le sue videocassette, etichettate con i nomi delle donne, non sono trofei di caccia, ma reliquie di un contatto umano autentico, seppur vicario.

Soderbergh orchestra questa pièce con la precisione di un drammaturgo scandinavo. L'appartamento di Ann, con i suoi toni neutri e la sua pulizia maniacale, diventa la prigione dorata di un'anima in stasi, un non-luogo che ricorda le tele di Edward Hopper, cariche di una solitudine palpabile e di una tensione inespressa. Il dialogo, scritto dallo stesso Soderbergh in otto giorni durante un viaggio in auto, è un capolavoro di lame verbali, di sottotesti e di silenzi assordanti. Ogni conversazione è una mossa in una partita a scacchi psicologica, un balletto di confessioni mancate e di proiezioni. In questo, il film si avvicina più a Éric Rohmer che a qualsiasi altro cineasta americano del suo tempo. Come nei "Racconti morali" del maestro francese, i personaggi di Soderbergh parlano incessantemente d'amore e di sesso, ma le loro parole servono più a nascondere che a rivelare, a razionalizzare il vuoto che li divora.

L'uso della tecnologia è il cuore pulsante e profetico del film. Nel 1989, la videocamera domestica era un simbolo di modernità, un giocattolo per immortalare feste di compleanno e vacanze. Soderbergh ne intuisce il potenziale oscuro: la capacità di trasformare l'esperienza in performance, la vita in archivio. Graham è il prototipo dell'individuo del XXI secolo, colui che antepone la rappresentazione della realtà alla realtà stessa. La sua condizione, guardare la vita attraverso uno schermo per potervi partecipare emotivamente, è una diagnosi spietata che anticipa di trent'anni l'era dei social network, delle identità digitali, delle relazioni mediate da uno schermo. La sua impotenza non è solo fisica, ma esistenziale: è l'incapacità di connettersi senza il filtro rassicurante della tecnologia. Egli è il fantasma nella macchina, un precursore dell'uomo contemporaneo che cerca la catarsi attraverso un post, un video, un avatar.

In questo senso, il film opera una profonda decostruzione meta-cinematografica. Graham è un regista, un montatore e l'unico spettatore del suo cinema privato. Le sue interviste sono sessioni di casting esistenziali. Quando Ann, nel climax del film, decide di farsi intervistare e poi, in un colpo di genio narrativo, gira la telecamera verso Graham e lo costringe a confessare, assistiamo a un ribaltamento radicale della dinamica del potere e dello sguardo. È la "soggetto" filmato che si fa regista, che smaschera il voyeur e lo costringe a diventare a sua volta vulnerabile, a entrare nell'inquadratura. In quel momento, Ann non sta solo demolendo le difese di Graham, ma sta simbolicamente distruggendo la barriera tra spettatore e spettacolo, tra chi guarda e chi è guardato, mettendo a nudo il meccanismo stesso del cinema.

La vittoria della Palma d'Oro a Cannes fu un evento epocale, la consacrazione di un cinema che non aveva bisogno di budget milionari ma di idee potenti. Soderbergh, che curò anche il montaggio sotto lo pseudonimo di Mary Ann Bernard (il nome di sua madre), dimostra una maturità registica sbalorditiva. La sua messa in scena è essenziale, quasi clinica, eppure capace di creare un'intimità claustrofobica. La fotografia dai colori slavati, quasi desaturati, contribuisce a creare un'atmosfera di apatia emotiva che contrasta violentemente con la carica erotica repressa che serpeggia sotto la superficie.

Sesso, bugie e videotape è il romanzo di formazione di un'intera cultura cinematografica, ma anche un'opera che, a distanza di decenni, non ha perso un grammo della sua perturbante rilevanza. Se la fine degli anni Ottanta segnava l'apice di una società fondata sull'immagine e la superficie, il film di Soderbergh ne è stato il referto autoptico, l'elegia funebre. Ha messo in scena il grande rimosso dell'era yuppie: l'ansia, il vuoto, la disperata ricerca di un'onestà brutale in un mondo di sorrisi di plastica e di bugie ben arredate. È un film che ci ricorda che, molto prima di OnlyFans e delle dirette Instagram, c'era un uomo solo in una stanza, che cercava una connessione umana guardando un nastro VHS, dimostrando che la nostra fame di verità, e la nostra paura di essa, è una storia vecchia quanto l'uomo. E a volte, per vederla, abbiamo bisogno che qualcuno prema "rec".

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