Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Shakespeare in Love

1998

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Un miracolo non è infrangere le leggi di natura, ma raddrizzarle. Così recita la battuta finale, pronunciata da una Viola de Lesseps ormai rassegnata al suo destino transoceanico, e in questa frase risiede l'intero manifesto poetico e programmatico di Shakespeare in Love. Il film di John Madden, su sceneggiatura-capolavoro di Marc Norman e Tom Stoppard, non è un biopic. Non è nemmeno un film storico. È un atto di stregoneria narrativa, un'apocrifa genesi che si prefigge un compito tanto arrogante quanto sublime: raccontare come la più grande tragedia d'amore della letteratura occidentale sia nata non dall'inchiostro e dalla pergamena, ma dal sangue, dal fango e dal desiderio febbrile di un cuore infranto.

L'impronta di Tom Stoppard è l'innesco di questa bomba a orologeria intellettuale. Chiunque abbia familiarità con il suo Rosencrantz e Guildenstern sono morti riconoscerà immediatamente il metodo: prendere un testo sacro, inattaccabile, e illuminarne i margini, esplorare le quinte, dare voce a ciò che la Storia (o il Canone) ha lasciato in ombra. Lì, erano due personaggi secondari a diventare protagonisti di un dramma esistenziale beckettiano; qui, è il processo creativo stesso, l'atto demiurgico della scrittura, a diventare l'eroe di una vicenda che si avvita su se stessa in un gioco di specchi vertiginoso. Il film postula che Romeo e Giulietta non fu un'invenzione, ma una trascrizione. Un reportage sentimentale dal fronte di una passione impossibile, dove il giovane e talentuoso Will Shakespeare (un Joseph Fiennes febbrile e perfetto, perennemente a metà tra l'ispirazione divina e la disperazione più terrena) trova la sua musa in Viola de Lesseps (Gwyneth Paltrow, in una performance che le valse un Oscar tanto celebrato quanto contestato, ma la cui radiosità è innegabile).

La struttura è un pezzo di bravura metatestuale. Ogni evento nella vita di Will e Viola trova un contrappunto, una eco diretta, nella stesura dell'opera. Il loro primo incontro al ballo diventa la scena della festa in casa Capuleti. Il loro bacio rubato sul balcone si trasforma nell'eponima scena del dramma. Lo scontro tra le due compagnie teatrali rivali, The Rose e The Curtain, riecheggia la faida tra Montecchi e Capuleti. Il film costruisce un'architettura narrativa in cui la "realtà" e la finzione non sono più distinguibili, un pastiche postmoderno che però, a differenza di tanta arte autoreferenziale, non è mai freddo o cinico. Anzi, pulsa di un calore e di una sincerità disarmanti. È un gioco, certo, un'arguta invenzione, ma è un gioco a cui crediamo disperatamente, perché tocca una verità universale: l'arte non nasce nell'iperuranio delle idee platoniche, ma nel disordine glorioso della vita. Nasce dalle scadenze impossibili imposte da un produttore sull'orlo della bancarotta (un magnifico Geoffrey Rush), dalla vanità degli attori, dagli incidenti fortuiti e, soprattutto, dall'urgenza di dare forma a un'emozione che altrimenti ci consumerebbe.

L'operazione di Madden e Stoppard ricorda, per spirito e intelligenza, quella di un altro capolavoro sulla creazione artistica: Singin' in the Rain. Entrambi i film sono ambientati in un momento di transizione tecnologica e culturale (il passaggio dal muto al sonoro lì, le fondamenta del teatro moderno qui), entrambi sono commedie romantiche brillanti che fungono da veicolo per una riflessione profonda sul proprio medium. Entrambi celebrano l'alchimia caotica e collaborativa che trasforma il piombo delle difficoltà produttive nell'oro della magia cinematografica (o teatrale). E, cosa più importante, entrambi rifiutano la pedanteria filologica per abbracciare una verità più alta, quella emotiva. La Londra elisabettiana di Shakespeare in Love non è quella storicamente accurata, quella del fetore, della peste e della violenza endemica. È una Londra da palcoscenico, una ricostruzione idealizzata, quasi preraffaellita nella sua bellezza pittorica, dove anche la taverna più malfamata ha una sua patina romantica. Questa non è una debolezza, ma una scelta stilistica coerente: il mondo del film è esso stesso una rappresentazione teatrale, un set in cui si muovono personaggi che sono archetipi viventi.

In questo teatro del mondo, ogni ruolo è cesellato alla perfezione. Colin Firth è un Lord Wessex odioso e ridicolo, l'ostacolo pragmatico e senza fantasia all'amore poetico. Ben Affleck, in una mossa di casting allora sorprendente, incarna l'ego smisurato della star teatrale Ned Alleyn, regalando al film alcuni dei suoi momenti più comici. E poi, naturalmente, c'è Judi Dench. La sua Regina Elisabetta I è una lezione di cinema. In una manciata di minuti, con poche battute taglienti e uno sguardo che trafigge l'anima, crea un personaggio di potere, intelligenza e malinconia indimenticabili. La sua scommessa finale, il suo verdetto sulla capacità del teatro di mostrare la verità dell'amore, è il sigillo filosofico del film. È la rappresentazione del pubblico ideale, esigente e colto, ma in fondo desideroso di essere commosso e sorpreso.

Inserito nel suo contesto, Shakespeare in Love è anche il canto del cigno di un certo tipo di cinema. Uscito nel 1998, rappresenta l'apice del potere della Miramax di Harvey Weinstein, una macchina da guerra culturale progettata per produrre film intelligenti, colti, ben scritti e destinati a dominare la stagione dei premi. La sua controversa vittoria all'Oscar come Miglior Film contro il titanico Salvate il soldato Ryan di Spielberg non fu solo uno scontro tra due pellicole, ma tra due visioni del cinema: da un lato, l'epica bellica, viscerale e tecnicamente rivoluzionaria; dall'altro, la commedia romantica in costume, letteraria, arguta e squisitamente costruita. La vittoria del secondo fu vista da molti come un trionfo della leggerezza sulla gravitas, della parola sull'immagine, dell'artigianato sulla magniloquenza. Oggi, a distanza di anni e con la consapevolezza del sistema che lo ha prodotto, il film mantiene intatta la sua magia. Anzi, la sua natura di "film-oggetto" perfettamente levigato appare quasi come un reperto di un'era cinematografica perduta, un'epoca in cui un'opera basata sulla finezza della parola e sull'intelligenza della struttura poteva diventare un fenomeno culturale globale.

Il film è disseminato di delizie per l'appassionato: il giovane John Webster, futuro maestro del dramma giacobita, che si aggira come un piccolo gotico innamorato del sangue e della violenza scenica; Christopher Marlowe, il grande rivale di Shakespeare, che appare brevemente per fornire (inconsapevolmente) la trama dell'opera; il cameo della sceneggiatura che si intitola provvisoriamente "Romeo and Ethel, the Pirate's Daughter". Ogni dettaglio è un ammiccamento, un tassello di un mosaico che celebra non solo Shakespeare, ma l'amore per il teatro e la letteratura in sé.

Alla fine, Shakespeare in Love è una magnifica bugia che ci racconta la verità. La verità non su come Romeo e Giulietta sia stato effettivamente scritto – un'informazione che, in fondo, sarebbe solo una nota a piè di pagina per accademici – ma sulla natura stessa dell'ispirazione. Ci dice che le più grandi storie non vengono inventate dal nulla, ma scoperte nel tumulto del cuore umano. Che ogni verso d'amore è stato prima vissuto, ogni lacrima è stata prima versata. È una fantasia, un sogno a occhi aperti sull'età elisabettiana, ma è un sogno che spiega l'origine del sogno più duraturo di tutti. È un miracolo che non infrange le leggi della storia, ma le raddrizza in una forma più poetica, più vera del vero. E cosa potremmo chiedere di più all'arte?

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