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La Palla nr. 13

1924

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Buster Keaton dirige e interpreta questa deliziosa riduzione metaletteraria in cui fanno capolino Conan Doyle e Pirandello. Il piano fisico, quello onirico e quello teatrale si intersecano creando una sorta di varco multidimensionale in cui la genialità di Keaton imperversa come un folle Demiurgo, tessendo una trama che è al contempo parodia e profonda riflessione sull'atto creativo e percettivo. Quarantacinque minuti di grande cinema, un distillato di pura inventiva in cui Keaton tocca fugacemente temi che avrebbero costituito l’ossatura di moltissima cinematografia a venire. Il regista prende in prestito gli elementi tipici dei film gialli, come il detective dal ragionamento impeccabile, il mistero irrisolvibile e l'inseguimento mozzafiato, per poi sottoporli a una divertente parodia straziata da elementi talmente surreali e improvvisi da disorientare lo spettatore, trascinandolo in un labirinto di non-sense logicamente strutturato. Così facendo, non solo anticipa ma in un certo senso fonda molti elementi del surrealismo cinematografico, con le sue immagini oniriche, le sue logiche svelate e immediatamente contraddette, e la sua audace giustapposizione di realtà inconciliabili. È bene tenere presente che il suo film ha influenzato registi come Luis Buñuel, il quale ha spesso citato "La Palla n° 13" come una delle sue principali fonti di ispirazione, riconoscendo in esso l'audacia di rompere le convenzioni narrative e di esplorare le derive dell'inconscio ben prima che il movimento surrealista trovasse la sua piena espressione sulle pellicole europee. L'abilità di Keaton nel destabilizzare la percezione della realtà attraverso il montaggio e la performance non è solo comica, ma profondamente filosofica, anticipando le discussioni pirandelliane sull'identità e sul ruolo dell'illusione nella vita e nell'arte.

Un proiezionista appassionato di gialli, la cui esistenza è forse più grigia della pellicola che scorre nel suo apparecchio, si innamora di una ragazza, ma viene ingiustamente accusato di furto dal suo rivale in amore. Disperato e ferito nell'orgoglio e nell'anima, si addormenta durante una proiezione e si ritrova, con un salto diegetico senza precedenti, catapultato all'interno del film che sta proiettando: un giallo intricato che pare una proiezione dei suoi stessi desideri e timori. In questo mondo onirico, che è anche il cuore pulsante del paradosso keatoniano, egli diventa "Sherlock Jr.", un detective brillante e incredibilmente agile, capace di sfidare le leggi della fisica e della logica narrativa per indagare su un furto e cercare di riabilitare il suo nome. Tra gag esilaranti, coreografie comiche di precisione millimetrica e situazioni surreali che sfidano ogni coerenza spaziale e temporale, Keaton ci regala una performance acrobatica e comica indimenticabile. Il suo "Great Stone Face", impassibile di fronte all'assurdità circostante, diviene il catalizzatore di un umorismo che è al contempo slapstick puro e acuta osservazione esistenziale, giocando con i confini tra realtà e finzione, tra sogno e veglia, e invitando lo spettatore a riflettere sulla fluidità di tali demarcazioni.

Il film, più che una semplice commedia, è una meta-riflessione sul cinema stesso, un saggio visivo sulle sue possibilità illusionistiche e sulle sue implicazioni epistemologiche. Keaton, come un mago virtuoso e un ingegnere della narrazione, gioca con i confini tra ciò che è tangibile e ciò che è meramente rappresentato, tra il vissuto e il sognato, coinvolgendo lo spettatore in un vortice di piani narrativi sovrapposti e scivolosi. Il sogno non è un mero espediente narrativo, ma lo strumento attraverso cui Keaton esplora le fantasie recondite e le paure latenti del suo protagonista, creando una dimensione onirica che è al tempo stesso surreale e poetica, capace di rivelare verità più profonde della veglia stessa. L'uso innovativo del montaggio, in particolare la sequenza in cui il proiezionista entra ed esce ripetutamente dallo schermo attraverso tagli rapidissimi che cambiano lo scenario attorno a lui, non è solo un prodigio tecnico per l'epoca (era il 1924!), ma una dichiarazione d'intenti sul potere del cinema di manipolare lo spazio e il tempo. La costruzione delle gag, spesso basate su effetti speciali in-camera o su un'ingegneria scenografica complessa, e la capacità di creare suspense attraverso un susseguirsi incalzante di eventi, sono elementi che hanno anticipato molte delle tecniche narrative e visive utilizzate nel cinema moderno, dal thriller psicologico alla commedia surreale. Il montaggio è uno degli elementi chiave del film, una vera e propria grammatica visiva: Keaton utilizza tagli rapidi e inquadrature insolite non solo per creare un senso di disorientamento e per sottolineare l'aspetto onirico e volutamente incongruo della narrazione, ma per dimostrare la capacità del mezzo di alterare la percezione della realtà. "La Palla n° 13" è un film che va oltre il tempo e lo spazio, un'opera che continua a affascinare e a sorprendere gli spettatori di ogni generazione, costringendoli a riconsiderare cosa sia "reale" sul grande schermo. La sua originalità, la sua inventiva e la sua capacità di unire il comico più sfrenato al poetico più delicato, rendono questo gioiello di quarantacinque minuti un capolavoro assoluto del cinema, un manuale vivente sull'arte di far sognare ad occhi aperti.

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