Shining
1980
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Regista
Jack Torrance viene assunto come guardiano invernale presso l’Overlook Hotel, un grande albergo in una zona sperduta sulle Montagne Rocciose. Una scelta dettata dalla necessità e dalla speranza di trovare la quiete necessaria per dedicarsi alla scrittura, ma che si rivelerà una discesa agli inferi.
Scrittore a tempo perso, decide di portare con sè la propria famiglia, sua moglie Wendy e suo figlio Danny di sette anni. Presto saranno completamente isolati, tagliati fuori dal mondo da una nevicata implacabile, e Jack subirà il velenoso sortilegio di quel luogo solitario e silenzioso, un’entità malvagia che non si limita a infondere paranoia, ma sembra attingere e amplificare le sue più oscure pulsioni. La claustrofobia degli spazi infiniti, l'eco del nulla che riempie gli immensi saloni, diventano un catalizzatore per un malessere latente, un’agghiacciante metafora della prigione mentale in cui Jack si sta serrando.
Anni prima infatti erano avvenuti misteriosi omicidi nella struttura e Jack s’imbatte sempre più spesso in strane apparizioni che sembrano far tornare l’hotel al suo antico fulgore: la grande Hall si anima di clienti fantasma, festosi e sinistri, e Jack in questa sorta di mondo parallelo provenuto dal passato può tranquillamente bersi un drink appoggiato al bancone del bar mentre il malizioso barman Lloyd, custode di un’inquietante saggezza infernale, chiacchiera amabilmente con lui, fornendo pretesti e giustificazioni per la sua crescente dissoluzione morale. Questi incontri non sono semplici visioni, ma un’immersione sempre più profonda in una realtà distorta, dove il confine tra il presente e un passato sanguinoso si fa sempre più labile, quasi a suggerire che la storia dell’Overlook non sia un mero ricordo, ma una forza attiva e corruttrice.
Anche Danny s’imbatte nelle stesse visioni. Danny è un bambino speciale: è un sensitivo e ha il dono della doppia vista, il "Shining" che dà il titolo al film, e che gli permette di vedere le cose nascoste, di percepire gli echi del male che permeano l'hotel. Il suo dono, lungi dall'essere una benedizione, si rivela un fardello, rendendolo preda delle manifestazioni più raccapriccianti. Danny nei labirintici corridoi dell’Overlook vede spesso due gemelline che lo fissano intensamente, presenze spettrali che ricordano le vittime di un precedente massacro e che incarnano una minaccia infantile ma profondamente disturbante. L'utilizzo della Steadicam, per la prima volta impiegata in modo così estensivo, ci trascina fisicamente dietro il triciclo di Danny, amplificando la percezione di vastità e isolamento degli spazi, trasformando i corridoi in un labirinto non solo fisico ma anche psicologico.
Un giorno passando davanti alla stanza 237 Danny ha un’orrenda apparizione e più tardi anche Jack, entrando nella stanza per controllare, vede una splendida donna nella vasca da bagno, liquefarsi letteralmente sotto le sue mani e putrefarsi. Questa scena, un capolavoro di body horror psicologico, non è solo un jumpscare viscerale, ma un simbolo della corruzione che l’Overlook opera: la bellezza si trasfigura in putridume, il desiderio in repulsione, il sogno in incubo. È il punto di non ritorno per Jack, dove la realtà oggettiva cede il passo all'allucinazione più grottesca.
Jack è sempre più paranoico e gli eventi precipiteranno fino a convincerlo che sterminare la sua famiglia è la cosa giusta da fare, un’azione che, nella sua mente distorta, diventa quasi un imperativo morale dettato dagli "ospiti" dell'hotel. Nel frattempo Wendy, incarnazione di una fragilità spaventata che si trasforma in determinazione ferrea per proteggere il figlio, avvicinandosi agli scritti di Jack sfoglia le pagine del suo romanzo per constatare con orrore che contengono soltanto il proverbio “All work and no play makes Jack a dull boy” (che nella versione italiana Kubrick ha mutato nell’altrettanto iconico “Il Mattino ha l’oro in bocca”) ripetuto all’infinito per tutte le pagine. Questo non è solo un segno di follia, ma una rappresentazione agghiacciante della sterilità creativa di Jack e della sua incapacità di produrre altro che ossessiva ripetizione, un loop mentale che lo ha divorato, trasformando l'ambizione artistica in mero automatismo macabro. La follia di Jack è ormai manifesta, è la macabra danza finale può iniziare, una danza mortifera tra la vita e la follia, l'amore e l'odio, la famiglia e la distruzione.
Kubrick si cimenta per la prima volta con il genere Horror e lo fa da par suo, destrutturandolo e ricodificandolo. A Kubrick l’aspetto demoniaco, esoterico importa relativamente: il vero orrore proviene dall’uomo, dal suo io frantumato in gesti seriali, disperso in una solitudine anecoica, annientato dalla paranoia. L’hotel non è un’entità che possiede Jack, quanto piuttosto una lente d’ingrandimento che ne rivela e accelera la patologia preesistente, una predisposizione alla violenza e all’abuso (come suggerito dal suo passato di alcolista e dalle allusioni alla violenza su Danny). Le apparizioni non sono tanto fantasmi esterni, quanto costruzioni mentali di Jack che rivive i diabolici assassini avvenuti in quei luoghi, o proiezioni delle sue stesse intenzioni omicide, grazie ad una follia conclamata che lo trascina in un loop mentale che non gli da scampo. Questa interpretazione lo eleva ben oltre il semplice horror sovrannaturale, facendone uno studio psicologico agghiacciante sulla fragilità della mente umana e i pericoli dell'isolamento estremo.
Shining presenta numerosi tratti essenziali dell’estetica kubrickiana: la micidiale simmetria degli oggetti e delle inquadrature (il plastico del labirinto all’esterno, che riflette l’insana geometria mentale di Jack; le forme geometriche ipnotiche della moquette nei corridoi, vere trappole visive; le inquadrature degli stessi corridoi sempre perfettamente simmetriche rispetto al punto di fuga centrale, creando un senso di claustrofobia e inevitabilità), la cura maniacale per l’ambientazione (gli interni furono ricostruiti a Londra con una fedeltà ossessiva, permettendo al regista un controllo totale su ogni elemento scenico e luminoso), la perfezione formale registica che si traduce in un’esperienza visiva e uditiva di rara intensità. Ogni inquadratura è una composizione pittorica, ogni suono (dalle agghiaccianti musiche di György Ligeti e Krzysztof Penderecki, che amplificano il disagio, al silenzio quasi innaturale che permea l'hotel) è calibrato per penetrare le difese dello spettatore. La scelta di girare il film con un numero spropositato di ciak per ogni scena non è solo aneddotica, ma testimonia la sua ricerca maniacale della perfe perfezione, portando gli attori, in particolare Shelley Duvall, sull'orlo di un esaurimento nervoso, riflettendo così la stessa angoscia dei loro personaggi.
Alcune scene si sono inoculate nell’immaginario collettivo come tatuaggi indelebili: come lo squarcio nella porta in cui fa capolino un Nicholson demoniaco e sogghignante, gli occhi fuori dalle orbite, mentre è intento a sfondare la porta del bagno in cui si è rinchiusa Wendy, con il suo celebre "Here's Johnny!" che divenne un’improvvisazione leggendaria. O ancora la scena già citata dell’abbraccio al corpo putrefatto della donna della camera 237, un’immagine di repulsione e orrore puro. O ancora l’ascensore che aprendosi inonda il corridoio con un fiume in piena di sangue, un’onda scarlatta che travolge lo spettatore, simbolo di tutta la violenza inespressa e la storia di massacri che l’hotel ha assorbito e che ora erutta. Iconografia da cui è impossibile sottrarsi e che costituisce un archetipo con cui ogni regista deve prima o poi fare i conti, una pietra miliare che ha ridefinito il genere horror, dimostrando che il vero terrore non risiede nel mostro sotto il letto, ma nella psiche umana al limite della sopportazione. Un capolavoro di controllo formale al servizio di un caos narrativo ed emotivo devastante.
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