Sinfonia d'Autunno
1978
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Regista
L'unico, agognato incontro tra i due Bergman più celebri del cinema, Ingmar e Ingrid, qui al suo ultimo, straordinario ruolo per il grande schermo, un cigno nero di una bellezza dolente e maestosa. Questa non è solo un'annotazione da nerd cinefilo; è la chiave per comprendere la natura dell'opera. Abbiamo da un lato Ingmar, il sommo sacerdote dell'esistenzialismo europeo, il chirurgo dell'anima che opera nelle ombre. Dall'altro, Ingrid, l'icona luminosa di Hollywood, un volto che per decenni ha incarnato una forma di sofferenza nobile e romantica. Il loro incontro è la collisione di due universi, e il risultato è un film che è un duello psicologico di una ferocia inaudita, un Kammerspiel che ha la precisione di un bisturi e la brutalità di un interrogatorio.
La sua forza è nella sua universalità emotiva, che trascende ogni barriera culturale. Il campo di battaglia è un rapporto madre-figlia, un territorio di amore e risentimento, di sensi di colpa e accuse stratificate in decenni di non detti. La performance di Ingrid Bergman, nel ruolo di Charlotte, una pianista di fama mondiale, è un capolavoro di narcisismo e fragilità. È una donna che ha sacrificato l'intimità familiare sull'altare della propria arte, e che ora, anziana e sola, cerca un'assoluzione che non le verrà concessa. Di fronte a lei, Liv Ullmann, attrice feticcio di Ingmar, offre una delle sue prove più strazianti nel ruolo della figlia Eva. Devota ma piena di una rabbia a lungo repressa, la sua Eva è un vulcano di dolore che erutta in una notte catartica. È un film che viviseziona l'idea di famiglia, l'ereditarietà del dolore e l'impossibilità di perdonare veramente. La scena in cui Charlotte, con una gentilezza che è la più affilata delle crudeltà, corregge l'interpretazione della figlia di un preludio di Chopin, non è una lezione di musica. È un microcosmo della loro intera esistenza: un atto di dominio materno che, mascherato da professionalità, annichilisce l'autostima della figlia. Chiunque abbia avuto un rapporto complesso con un genitore non può che sentirsi quasi fisicamente coinvolto da questo scontro verbale che assomiglia a una partita a scacchi giocata con l'anima.
L'eredità di questo film nell'esplorazione del rapporto madre-figlio è immensa, e ha creato un vero e proprio standard con cui le opere successive si sono dovute confrontare. Pensiamo a due esempi apparentemente agli antipodi. Da un lato, il cinema quasi mistico di Aleksandr Sokurov con Madre e Figlio. Il film di Sokurov è il controcanto spirituale di Bergman: dove Bergman mette in scena una guerra verbale nata da un'incomprensione radicale, Sokurov filma un silenzio quasi totale, un legame simbiotico e devozionale tra una madre morente e un figlio che la accudisce. È un'opera pittorica, non verbale, che esplora l'amore come fusione totale. All'estremo opposto dello spettro troviamo l'esplosivo Mommy di Xavier Dolan. Il film del regista canadese è il figlio punk rock e iperattivo di Sinfonia d'Autunno. L'intensità è la stessa, la claustrofobia anche, ma l'estetica è massimalista, pop, urlata. Eppure, il nucleo del dramma è identico: la natura totalizzante e a tratti distruttiva dell'amore filiale, il conflitto tra il bisogno di protezione e il desiderio di libertà. Bergman, quindi, ha tracciato il solco, creando un'opera che funziona come un testo primario a cui il cinema successivo ha risposto, sia per assonanza che per dissonanza.
Tutto questo si svolge all'interno della cornice rigorosa del Kammerspiel, o dramma da camera. Questo genere, nato nel teatro tedesco di inizio Novecento con Max Reinhardt e poi trasposto nel cinema da registi come Murnau, è la forma prediletta da Bergman, che veniva proprio dal teatro. L'idea è semplice ma potentissima: confinare un piccolo numero di personaggi in uno spazio chiuso per un tempo limitato. La casa di Eva, il presbiterio isolato nella campagna norvegese, non è uno sfondo, ma una camera di decompressione psicologica. Senza distrazioni, senza vie di fuga, i personaggi sono costretti a confrontarsi con i loro demoni interiori e, soprattutto, gli uni con gli altri. L'estetica del Kammerspiel non è una scelta economica, è una scelta filosofica. Afferma che i drammi più grandi e universali non si svolgono sui campi di battaglia della storia, ma nei salotti, nelle camere da letto, negli spazi silenziosi dove le relazioni umane si forgiano e si frantumano. È l'elevazione del domestico a tragico.
E questo ci porta alla domanda finale: perché Bergman è un regista fondamentale per la storia del cinema? Perché, più di ogni altro, ha capito che il più grande paesaggio che il cinema potesse esplorare era il volto umano. I suoi celebri primi piani, scolpiti dalla luce magistrale del direttore della fotografia Sven Nykvist, non sono semplici inquadrature, sono mappe dell'anima. Bergman ha avuto il coraggio di affrontare le "grandi domande"—il silenzio di Dio, il significato della morte, la natura dell'identità, la possibilità dell'amore—con una serietà e un'onestà intellettuale senza pari, rifiutando sempre le risposte facili. Ha perfezionato la fusione tra l'intensità della parola teatrale, con la sua eredità che affonda in Ibsen e soprattutto in Strindberg, e l'intimità dello sguardo cinematografico. Ha reso il cinema un luogo adulto, uno strumento di indagine filosofica e psicologica. Sinfonia d'Autunno, con la sua perfezione formale, la sua potenza emotiva e il suo coraggio nello scandagliare le zone più oscure dei legami umani, è una delle vette più alte della sua arte e un'opera la cui eco, come quella di un preludio di Chopin suonato magistralmente, continua a risuonare a lungo dopo la fine della visione.
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