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Il Dormiglione

1973

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Un Woody Allen agli esordi gira uno dei suoi film più divertenti e surreali, un'opera che, a cinquant'anni dalla sua uscita, continua a risplendere di un'arguzia sferzante e di una visionaria comicità, rivelando la precoce maestria di un autore destinato a ridefinire i contorni della commedia intellettuale americana. È il 1973, e Allen, forte delle sue esperienze come monologhista di stand-up comedy e sceneggiatore, nonché delle prime incursioni registiche che avevano già evidenziato una peculiare propensione al non-sense e alla parodia (si pensi a Prendi i soldi e scappa o Il dittatore dello stato libero di Bananas), si cimenta con il genere fantascientifico, non per esplorarne le inquietudini tecnologiche o le distopie esistenziali in chiave drammatica, ma per farne il trampolino di lancio per un'irresistibile farsa filosofica.

Nel 1973 Miles Monroe, clarinettista jazz e proprietario di un negozio di alimentari macrobiotici – un dettaglio che già da solo dipinge un ritratto esilarante di una certa controcultura dell'epoca – dopo essere stato ricoverato per aver accusato dolori lancinanti allo stomaco, viene ibernato per errore e si risveglia duecento anni dopo, in un improbabile futuro governato da un regime totalitario e repressivo. L'incipit è un manifesto programmatico: la scienza, invece di risolvere i problemi dell'uomo, li complica o li ignora con un'indolenza burocratica che anticipa il kafkiano. Miles si ritrova catapultato in una società sterile, igienizzata all'eccesso e svuotata di ogni autentica emozione, dove il conformismo è legge e il dissenso un'aberrazione da curare. È un mondo di architetture bianche e asettiche che strizzano l'occhio alla pulizia visiva di 2001: Odissea nello spazio, ma riletta in chiave farsesca, dove l'hal-9000 di Kubrick è sostituito da un'autorità invisibile e la trascendenza spaziale da un'oppressione quotidiana.

Riesce a sfuggire alla polizia travestendosi da robot, una delle prime, geniali trovate visive che omaggia il cinema muto e la fisicità di un Buster Keaton, maestro del movimento e dell'espressione impassibile, cui Allen ha sempre dichiarato apertamente di ispirarsi. Il corpo goffo e nevrotico di Miles, in contrasto con l'eleganza meccanica del robot, diventa veicolo di un umorismo slapstick che si fonde con la satira sociale.

Finisce per conoscere una poetessa algida e sofisticata, Luna Schlosser, interpretata da una Diane Keaton al culmine della sua magnetica bellezza e della sua capacità di combinare vulnerabilità e intelletto. Inizialmente emblema della conformità futuristica, Luna è un'artista di regime, ma la sua superficialità è presto scalfita dall'irriverente anarchia di Miles. La loro relazione, che evolve da un'iniziale incompatibilità a un affettuoso, seppur bizzarro, sodalizio, è il cuore emotivo del film. È una dinamica che prefigura la chimica ineguagliabile che i due attori avrebbero sviluppato in pellicole successive, come Io e Annie o Manhattan, ma qui incorniciata in un contesto di pura comicità surreale. La Keaton riesce a dare spessore a un personaggio che avrebbe potuto essere una mera spalla comica, conferendole una grazia che resiste persino alla follia generale.

Catturato, Miles viene sottoposto al lavaggio del cervello, un esplicito richiamo a Arancia Meccanica di Kubrick, ma l'orrore della rieducazione forzata è qui trasformato in un'esilarante incapacità di Miles di aderire a qualsiasi dogma, un'affermazione della sua intrinseca nevrosi come forma di resistenza involontaria. I ribelli lo salvano e gli affidano la missione di uccidere il Leader di cui attualmente rimane soltanto il naso (in seguito ad un attentato) che sta per essere clonato. L'idea del naso come ultimo residuo di potere, un frammento del volto totalitario da annientare, è un colpo di genio, una metafora visiva della vacuità del potere e della sua riduzione all'assurdo.

Tantissime le trovate grottesche che giocano con il genere fantascientifico creando una sorta di giocosa parodia, elevando il film ben oltre la semplice commedia. La satira è onnivora, e non risparmia nulla: dal consumismo sfrenato alla burocrazia asfissiante, dalle mode effimere alle ossessioni salutistiche del futuro, ogni aspetto della società è vivisezionato con arguzia. Il cibo, per esempio, è ridotto a pillole colorate o a cubetti insapori, in un'epoca in cui l'umanità si nutre solo di germi di grano, bistecche di soia e, in via eccezionale, budini di crema pasticcera di quattrocento anni. L'energia nucleare è stata bandita in un mondo alimentato esclusivamente da alimenti naturali e biologici, un'ironia sottile sulla pretesa di un'umanità purificata che rimane, in fondo, profondamente disfunzionale.

Una battuta su tutte, emblematica della cifra stilistica di Allen: "Se io credo in Dio? Puoi definirmi un ateo teologico esistenziale. Io credo in un’Intelligenza dell’Universo con l’eccezione di qualche cantone svizzero.”. Questa frase è un distillato del pensiero alleniano, un ossimoro filosofico che condensa la sua costante interrogazione sul senso dell'esistenza, sulla fede e sul non-senso, il tutto condito con la tipica autoironia e la capacità di disinnescare la gravità del tema con un dettaglio prosaico e inaspettato. È il Miles Monroe che si aggrappa alla sua irriducibile nevrosi come unica certezza in un mondo impazzito, un intellettuale bloccato nel corpo di un clown.

Un ricordo speciale anche per la macchina “orgasmatic” che dona piacere sessuale a chi ne fa uso, una specie di cabina telefonica dove si entra per fare sesso unilateralmente. Questa invenzione è una delle punte di diamante della satira di Sleeper: la sessualità è stata reificata, incasellata, resa una pratica igienica e solitaria, quasi un rito burocratico. È il trionfo della tecnologizzazione dell'intimità, un modo per evitare il disordine emotivo e la complessità relazionale che il sesso umano implica. Ma è proprio Miles, con la sua goffaggine e la sua disarmante normalità, a reintrodurre la spontaneità e il caos del sesso analogico, risvegliando non solo Luna ma l'intera società dalla sua anestesia emotiva. Il sesso non mediato dalla macchina diventa un atto rivoluzionario, un ritorno all'umanità primordiale.

Un’opera di dirompente intelligenza, dove la comicità divampa dall’ironia, dallo sguardo disincantato e irriverente del protagonista, dalle sue battute destabilizzanti. Il Dormiglione è un ponte tra il primo Allen, quello del puro intrattenimento comico e della gag a raffica, e il Woody Allen più riflessivo e autoriale che avrebbe poi esplorato le complessità delle relazioni umane e delle nevrosi intellettuali. Qui, la sua estetica comica raggiunge una piena maturità, combinando la comicità fisica ereditata dai maestri del muto con un umorismo verbale raffinato e stratificato, intriso di riferimenti colti e di battute folgoranti. È un film che, attraverso il paradosso e la farsa, ci invita a riflettere sulla natura del progresso, sulla libertà individuale e sulla persistente, ridicola, umanità che si agita sotto ogni pretesa di perfezione. E lo fa con un'eleganza e una leggerezza che sono la cifra inconfondibile di un genio della risata.

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