La Città Incantata
2001
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Regista
Relegare La Città Incantata a mero film d’animazione per bambini è tremendamente riduttivo. È un’ermeneutica superficiale che ignora la profondità abissale di un’opera che dialoga con l’archetipo e l’inconscio collettivo, elevandosi a parabola universale sull’identità, la crescita e la resilienza. Hayao Miyazaki ci consegna questo emozionante pegno del suo immenso talento dove riesce a far coesistere in perfetta sintonia piano reale e piano fantastico, un sincretismo non solo narrativo ma quasi ontologico, capace di fondere il tangibile con il sublime, il quotidiano con il mitico. Non è una semplice giustapposizione di elementi, ma una compenetrazione fluida che evoca la visione animista tipica dello Shintoismo, dove ogni oggetto, ogni luogo, ogni fenomeno naturale possiede un proprio spirito, un kami.
In un’intervista il Maestro Nipponico ha affermato che quando lavora ad un film non gli serve una sceneggiatura, i suoi film si creano disegno dopo disegno, seguendo la direzione che prende la narrazione. Una dichiarazione che potrebbe apparire spiazzante nell’industria cinematografica occidentale, abituata a bible e storyboard blindati. Eppure questa splendida opera sembra un edificio così maestoso e complesso, e nello stesso tempo armonico e perfetto, che si fatica a credere che dietro non vi sia una planimetria studiata a fondo. Questa apparente casualità è in realtà la cifra stilistica di una genialità che si fida del processo creativo stesso, permettendo alla storia di emergere come un organismo vivente, strato dopo strato. È una metodologia che attinge alla libertà dell'improvvisazione jazz o alla pittura en plein air, dove l'intuizione guida la mano dell'artista, e l'immersione nel fluire delle idee genera una coerenza interna che nessun rigido schema logico potrebbe eguagliare. È come se Miyazaki stesse dipingendo un ukiyo-e animato, catturando frammenti di un mondo effimero ma eternamente significante.
La trama, nella sua essenza, è un viaggio iniziatico che risuona con gli antichi miti dell’eroe. Chihiro sta trasferendosi in una nuova città con i genitori. Durante il viaggio in auto suo papà decide di prendere una scorciatoia finendo in uno strano parco di divertimenti abbandonato. Quest'immagine del parco desolato, retaggio di un'epoca di opulenza e sfarzo effimero – un non troppo velato riferimento alla "bolla economica" giapponese degli anni '80 e '90 – è già un potente simbolo di transizione e decadenza. Esplorando quel luogo così desolato attira l’attenzione della famiglia un ristorante con florilegio di squisitezze esposte in assaggio, così mentre i due genitori si strafogano con il cibo, in un’esibizione di ingordigia quasi biblica, Chihiro esplora i dintorni, al suo ritorno mamma e papà saranno stati trasformati in maiali. Una trasformazione allegorica, punizione per la loro hybris e la loro adesione acritica al materialismo, che catapulta la piccola protagonista in una dimensione onirica e terrificante, dove la sua stessa identità viene messa in discussione.
Chihiro si avventura tra gli spiriti di quella città fantasma, alla ricerca di una via di salvezza per i propri genitori, catturati dalla malìa di quei luoghi. Sarà un viaggio surreale attraverso spiriti squinternati, ombre sfuggenti e vapori stregati, una discesa nell'ignoto che evoca, per certi versi, le peregrinazioni dantesche o le visioni di Hieronymus Bosch, ma filtrate attraverso l'estetica e la sensibilità nipponica. Il suo viaggio inizierà nel Palazzo della strega Yubaba, dove riuscirà a trovare un lavoro aiutata da Haku, uno strano ragazzo al servizio della strega, in un patto faustiano che la priva del suo nome, ma le dona la forza e la determinazione necessarie per affrontare un mondo alieno e spietato. Questa perdita del nome è un tropo significativo: spogliata della sua identità borghese, Chihiro è costretta a ricostruire se stessa attraverso il lavoro, l'empatia e il coraggio.
Alcune apparizioni rimangono memorabili, scolpite nell'immaginario collettivo con la forza dei simboli archetipici. Si pensi alle creature nel bagno turco che emergono dalla caligine dell’acqua e si affollano intorno alla piccola protagonista, entità che incarnano l'essenza stessa dell'acqua e del vapore, con una fisicità quasi tattile che trascende il semplice disegno. Oppure come Kamaji, l’uomo tentacolare che amministra il locale caldaie aiutato da tanti nerini di fuliggine che trasportano il carbone da gettare nelle enormi fauci infuocate della caldaia: una figura paterna e benevola, custode di un mondo sotterraneo che simboleggia il lavoro umile ma essenziale, la meccanica vitale dell'esistenza. E non si può dimenticare Senza Volto (Kaonashi), l'inquietante spirito che, come uno specchio deformante, riflette la solitudine e l'avidità di coloro che incontra, crescendo in mostruosità man mano che assimila il peggio dell'umanità, per poi redimersi attraverso la gentilezza e la comprensione.
Come ha fatto giustamente notare Roger Ebert, il compianto ed illuminato critico statunitense, ogni singolo fotogramma è creato con un’immensa dose di amore e di buon gusto. Non è solo animazione di altissimo livello tecnico, ma una vera e propria arte pittorica in movimento. Ogni singola inquadratura è abitata dalle creature più strane che mente umana possa concepire, e il Maestro le fa sfilare nella narrazione con una naturalezza disarmante, senza alcun tipo di artificio retorico, senza ombra di ridondanza semantica. L'universo di Miyazaki è denso, stratificato, vivo, ma mai esplicativo oltre il necessario; la sua grandezza risiede nella capacità di rendere l'incredibile plausibile, l'onirico tangibile. Le texture, i movimenti, le luci e le ombre sono orchestrate con una maestria che pochi registi, animati o meno, possono vantare. È un'esperienza sinestetica che avvolge lo spettatore, trascinandolo in un vortice di meraviglia e leggera malinconia, il mono no aware intrinseco a tanta arte giapponese.
Quest’opera è in sintesi il trionfo della Fantasia sulla Realtà, è la prova che la creatività assurge a vera e propria essenza ontologica del racconto, una forza vitale che plasma mondi e coscienze. Non è un’evasione dalla realtà, ma una sua rilettura profonda, un invito a guardare oltre la superficie delle cose. La Città Incantata non è solo un film, ma un'epifania visiva, un palinsesto di significati che continuano a rivelarsi ad ogni nuova visione. Un’opera in definitiva di mirabile ingegno che persiste a lungo nella mente e nel cuore, un monito gentile sulla responsabilità individuale e collettiva, e un inno eterno alla purezza e alla tenacia dello spirito umano. La sua risonanza globale, culminata con l'Oscar al miglior film d'animazione, non è stata un mero riconoscimento di tecnica, ma l'affermazione di un capolavoro che trascende i confini culturali e generazionali, affermandosi come una delle più grandi fiabe moderne.
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